Parola Progetto About
STAGIONE 6 — EP. 10

Federico Palazzari: diventare imprenditore per amore del design

06/2024 — 38:35

Nemo è un’azienda di illminazione sui generis, dove tecnologia e poesia si fondono con l’estetica. La guida Federico Palazzari, un avvocato diventato imprenditore per amore del design.

In questa puntata ci racconta con grande generosità la sua avventura professionale, che lo ha portato da Roma alla Cina e dalla Cina a Milano, tra registratori di cassa, trapani e – finalmente – illuminazione. Parliamo anche di incontri importanti e della necessità di fare squadra, di ex soci e futuro dell’imprenditoria, di progetti e di percorsi.

Senza dimenticare che dobbiamo riuscire ad accendere la luce senza pensarci troppo.

Buon ascolto!

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I link del podcast:
– Il sito di Nemo Group https://www.nemogroup.com
– Il lavoro di Ron Gilad https://www.rongilad.it
– L’installazione Enlightenment di Ron Gilad per Nemo https://www.youtube.com/shorts/yd2zGwFnk7k
– “Il giovane Holden” di J. D. Salinger (nella traduzione di Matteo Colombo) https://www.lafeltrinelli.it/giovane-holden-libro-j-d-salinger/e/9788806218188
– “Il vecchio e il mare” di Ernest Hemingway (nella traduzione di Silvia Pareschi) https://www.lafeltrinelli.it/vecchio-mare-nuova-ediz-libro-ernest-hemingway/e/9788804734451

PF: Sono Paolo Ferrarini e questo è Parola Progetto.

Parola Progetto è un podcast di dialoghi con persone che vivono di progetti, dove si racconta il design in tutte le sue forme, senza oggetti e immagini, solo attraverso la parola.

Ed eccoci qua. Oggi a Parola Progetto parliamo di come si progetta un’azienda e lo facciamo con Federico Palazzari, amministratore delegato e proprietario di Nemo Group.

Nato a Roma da una famiglia di avvocati e produttori teatrali, Federico frequenta la scuola navale Francesco Morosini di Venezia, a cui segue la Facoltà di Legge alla Sapienza, di nuovo a Roma. Attratto dal mondo del design, poco dopo i 30 anni si trasferisce a Milano e inizia a lavorare per diverse aziende del settore. Passa qualche anno e acquista Nemo, azienda fondata nel 1993 da Franco Cassina, una realtà votata a un design in cui aspetti ad alto tasso tecnico sposano con leggerezza la poesia. In anni recenti a Nemo si sono aggiunti Reggiani e Ilti, aziende dalla lunga storia nell’illuminazione di grandi progetti architettonici, musei, mostre e punti vendita.

Ciao Federico, benvenuto a Parola Progetto.

FP: Ciao, buongiorno.

PF: Partiamo dagli inizi. Ma come sei finito a frequentare una scuola navale?

FP: Beh, intanto in quel periodo la mia famiglia viveva in Umbria, a Terni e non a Roma. E devo dire che [è successo] grazie a mia nonna, onestamente. Perché [avevo] un nonno ufficiale, lei era grande amante delle divise, quindi valori solidi. Io in fondo amavo il mare, questa idea un po’ di vedere delle cose nuove e la nonna mi tentò, dicendo che mi avrebbe sponsorizzato tutto fino all’università se fossi andato in collegio. Perché secondo lei stavo molto bene con la divisa, ecco, questa era il motivo. Fondamentale.

PF: Una scelta estetica.

FP: Una scelta di natura puramente estetica, sostanzialmente estetica.

PF: Cosa ti sei portato via da quegli anni? C’è una cosa che hai imparato in quegli anni che è ancora fondamentale nel tuo quotidiano?

FP: Sicuramente un’idea di utilizzo del tempo. Ecco, il tempo quando sei in collegio, quando sei in un collegio militare, è scandito in maniera molto sistematica. Che da un lato è la grande rigidità e in qualche modo privazione della libertà, dall’altro ti aiuta ad utilizzarlo meglio probabilmente. Con i limiti del caso, perché poi pretendi lo stesso anche dai figli, dai collaboratori. Però direi che è stato un buon esercizio.

PF: Poi hai studiato legge, ma a quanto pare l’idea di diventare avvocato non era nelle tue corde.

FP: Io sono avvocato, ho lavorato come avvocato, ho fatto l’esame, mio papà era avvocato, ho tanti amici avvocati. È un mondo che in fondo mi appartiene molto. In fondo è un mondo. Il diritto e il modo di interpretare e capire il diritto mi hanno aiutato moltissimo nel mio lavoro anche attuale. In fondo, ma lo dico spesso, che la capacità di sintesi che ti dà comunque lo studio del diritto e la pratica di avvocato, in effetti ti mette in condizioni di comprensione del mondo che sono un po’ differenti rispetto agli altri. Inquadri subito in quale contesto delle cose possono avvenire e ne capisci (o ne intuisci, in qualche modo) la parte patologica. E questo in qualche modo ti dà la possibilità di prendere delle decisioni in maniera più rapida. Io ho fatto l’avvocato per un po’ di anni perché mi sono laureato relativamente presto, ho cominciato subito a lavorare, anzi. E poi mi hanno mandato in Asia, quindi ho lavorato come avvocato, uno dei primissimi avvocati italiani, in Cina, in Vietnam, da ragazzino, da 25, 26, 27 anni. Cercavano ovviamente qualcuno che non dovessero pagare tanto, non c’erano particolari meriti dietro. E anche quella è stata un’esperienza molto importante per il lavoro successivo. Sempre da un punto di vista di comprensione di quello che succede. In fondo delle cose le sai già, se vuoi te le devono chiarire ma non spiegare. E questo sicuramente ti dà la possibilità di decidere in maniera un po’ più rapida, un po’ più efficiente.

PF: Ed è ancora una questione di tempo.

FP: È ancora una questione di tempo, di sintesi direi. Quindi una sintesi tra il tempo e poi la conoscenza, che poi alla fine riguarda anche il tema del progetto sostanzialmente.

PF: Poi a un certo punto hai deciso di spostarti a Milano. È stato più difficile lasciare Roma o ambientarsi a Milano?

FP: Ma tieni presente che io sono arrivato a Milano in realtà dall’Asia. Perché avevo già lasciato in qualche modo Roma, che comunque considero la mia città. Però poi ero andato in Asia per fare l’avvocato, dove sono stato qualche anno. E lì che ho capito che in fondo a me di fare l’avvocato non mi interessava più di tanto. In realtà io volevo essere… più facevo le riunioni più volevo essere dalla parte del cliente.

PF: Ah, bello questo.

FP: E quindi dicevo “Beh, allora forse non è tanto il mio lavoro”. Ma soprattutto mi appassionava molto il mondo imprenditoriale italiano che in quegli anni si affacciava all’Asia. Ed è lì che poi in realtà è nata la mia passione per il mondo del design, ma non specifico per l’illuminazione. Che nasce, ma lo riconosco sempre, lo devo riconoscere dall’incontro con una persona. Perché poi i nostri mondi del design, la produzione di qualcosa affine al design (che sia illuminazione, che sia comunque progetto utile all’uomo per sedersi o per vedere) in realtà avviene o in maniera canonica – se l’azienda te la trasferiscono – o invece per una serie di variabili imponderabili, per cui ognuno ha le sue.

PF: E quali sono state le tue?

FP: Le mie sono state un incontro con Ernesto Gismondi, il fondatore di Artemide. In realtà prima mi sono un po’ innamorato di Ernesto, se vogliamo, di questo personaggio, che poi ho ritrovato in altre persone, questi imprenditori italiani del dopoguerra. In fondo lui era del ’31, ma insomma li costruivano un po’ differenti ai tempi. Avevano vissuto in qualche modo la guerra, la ricostruzione, quindi uno spirito anche combattivo, molto forte. Anche una grande voglia di godersi la vita, quindi era tutto molto bilanciato. Ho incontrato Ernesto, era cliente dello studio per cui lavoravo. E fu lui a un certo punto a dirmi, siccome io stavo tutto il tempo a sfogliare i cataloghi di Artemide, considera che avevo 26 anni, 26, 27 quegli anni lì, e lui mi diceva “Federico, guarda, bisogna che tu decida, o guardi i cataloghi o guardi i contratti, tutte e due le cose insieme non le puoi fare“. Anzi mi mise anche in imbarazzo onestamente a questa riunione, perché lo disse e io diventai anche rosso, me lo ricordo perfettamente. Aveva ragione lui. E infatti io per un po’ di anni ho fatto esattamente quell’errore, ho continuato a fare l’avvocato, ho cominciato a interessarmi di design, ho fatto una serie di esperimenti e di esperienze, anche perché partivo senza nessuna conoscenza. Soprattutto a me interessava molto la parte manifatturiera dell’esperienza, come si costruisce una cosa, che in fondo era una cosa a cui mi aveva fatto appassionare Ernesto, che avevo accompagnato in tanti viaggi, in tante cose, però non conoscevo assolutamente niente.

PF: Come ti sei fatto concretamente esperienza di produzione?

FP: Mi ricordo che l’Asia in quel momento dava tante opportunità, anche tanti rischi, ho fatto anche tante fesserie. Cominciai con un’azienda che costruiva registratori di cassa, quindi facevo degli stampi plastici. Quindi comunque le cose le capisci. Prendi delle gran musate, te le fanno prendere. Insomma, sono stati anni complessi e in fondo oggi col senno di poi me le ricordo molto duri, per cui anche io stesso mi chiedevo e mi chiedevano “ma scusa chi te lo fa fare?” Ecco questa era un po’ la cosa: volevo fare qualcosa ma non sapevo bene cosa. Sapevo quello che non volevo fare, quindi in quegli anni tra i 25, 26, 27, 28 ho provato, ho fatto i registratori di cassa, ho fatto dei trapani sempre con dei fornitori cinesi, ungheresi. Poi alla fine conobbi per un caso della vita, quello che poi sarebbe diventato un mio amico, un mio socio, un architetto di Novara che si chiama Gabriele Peretto, che fondò ai tempi una piccolissima, molto sofisticata azienda di illuminazione e per qualche coincidenza della vita mi chiese se volevo diventare suo socio. Io sapevo fare qualcosa ma poco, misi tutto quello che avevo lì, ma continuavo anche a fare l’avvocato; quindi, facevo veramente male tutte e due le cose per un po’ di tempo. Poi alla fine ovviamente le decisioni poi vengono da sole. Sicuramente se non ci fosse stato un altrove, che non fosse stato Italia, dove tu potevi in qualche modo fallire senza rischiare la faccia o la tua socialità eccetera, forse non avrei fatto un certo tipo di cose. Quell’estero, che è stata l’Asia nel mio caso, la Cina, Hong Kong, un posto non italiano dove eri libero di fare degli errori. Se fossi rimasto in Italia non so se avrei avuto quel coraggio lì di uscire in qualche modo dalla mia comfort zone.

PF: E come sei arrivato a Nemo? Come è scattato l’incontro a cui poi è seguito anche l’acquisto?

FP: Con Omicron Design (di cui ero socio a quel punto e con cui già lavoravo da anni) ormai la transizione era fatta. Poi verso il 2007/2008 cominciammo con Omicron a lavorare per il gruppo Cassina. Cassina era proprietaria di Nemo, che era un po’ un elemento avulso, così come lo sono oggi le aziende di illuminazione nei gruppi di furniture e viceversa. Se ne accorsero per tempo e quindi siccome c’era un rapporto di stima, di fiducia, avevamo lavorato insieme, conoscevo la proprietà, i tempi, la vecchia proprietà, l’azienda era quotata, quindi mi proposero di rilevare la maggioranza. Devo dire che sono riconoscente anche a quel mondo lì, perché comunque non avevo le possibilità di farlo in maniera così immediata. Per me era uno sforzo economico non gestibile se non mi avessero dato fiducia. A volte avere un po’ di fortuna, di comprensione è sicuramente importante. Devo dire che io con tutti i miei ex soci, che ormai cominciano ad essere svariati, ho dei magnifici rapporti. Questo secondo me è uno dei valori, appunto non avendo ereditato aziende: diciamo che o sei bravissimo e le costruisci da zero (talento che io non ho) oppure forse in un’ottica che mi riguarda anche molto, che è quella della sostenibilità, ce ne sono tante da gestire. Ecco, forse sono stato e sono più capace di fare quel lavoro lì, che è un valore conservativo e evolutivo, differente. Però per me è sempre stato un valore importante, io ho degli ottimi rapporti che si sono consolidati nel tempo con tutti i miei ex soci.

PF: Bello, bello, è una cosa che ti fa sicuramente onore. Cito una tua recente intervista “cerchiamo di comunicare e di esportare idee, il prodotto, il progetto è la fine di un’idea che si materializza, è un percorso”. Quando ho sentito questa frase ho detto “questa più che da imprenditore è una frase da designer”. Intendo l’idea del progetto, del percorso.

FP: Diciamo che nel nostro mestiere, chiamiamolo così, di gestori di aziende che producono per i designer (perché questa è la verità, poi sul lato tecnico non è esattamente così, comunque per semplificare) devi essere anche tu un po’ giocatore. Devi essere sicuramente allenatore, però qualche calcio al pallone devi saperlo dare e ti deve piacere ogni tanto scendere in qualche modo in campo, perché comunque intanto rafforzi la relazione con qualcuno che in qualche modo si sta spremendo il cervello per te e per la tua azienda, oltre che per lui, ma conta più quello. E poi perché sicuramente sempre di più ci sono delle questioni tematiche produttive, tecnologiche, soprattutto nel mondo dell’illuminazione, che non possono essere totalmente demandate a un progettista. Questo è un motivo molto più pratico, ti direi. E comunque sì, parte con un percorso. Alla fine, quello che vuoi fare è cercare di emozionare qualcuno. Una volta emozioni Paolo a casa mentre legge un libro, perché gli dai una bella lampada con una bella luce, un’altra volta magari illumini un museo e emozioni molte più persone. Però di fatto l’ambizione è quella lì, è quella di creare delle emozioni attraverso un progetto che ti ha coinvolto e ha coinvolto più persone. Quindi c’è un’idea di percorso, sempre.

PF: Nemo produce e commercializza sistemi di illuminazione di architetti e designer contemporanei. Cito giusto qualche nome preso dal vostro catalogo, Mario Bellini, Jean Nouvel, Andrea Branzi, Rudy Ricciotti, Arihiro Miyake. Accanto a loro in catalogo si trova anche la serie The Masters, fatta di lampade progettate da maestri del XX secolo. Nomi giganteschi: Le Corbusier, Charlotte Perriand, Vico Magistretti, Franco Albini. Domanda provocatoria che va oltre il tuo lavoro e il lavoro di Nemo: non c’è troppo passato nel design italiano contemporaneo?

FP: C’è sicuramente, c’è molto passato. Che io cerco sempre di vedere come un trampolino effettivamente per il futuro. C’è e credo che ci debba anche essere perché rappresenta un periodo storico. Di nuovo, il dopoguerra non è una cosa banale. C’è la ricostruzione italiana, una serie di valori che si sono accumulati e c’era una voglia di rischiare in un territorio che ai tempi era piuttosto neutro o comunque aperto. Quella sorta di risorgimento post-bellico comunque rimane cristallizzata come una grande fucina di progetti e di personalità. Ci sarà lo stesso tra ottant’anni? Non lo so, onestamente non lo so. Però rimane un periodo identificato che in qualche modo ci avvicina al progetto futuro. Ecco io lo vedo sempre in questo modo perché accanto ai nomi che hai citato tu nel nostro catalogo, che per me è sempre un obiettivo, c’è una serie invece di talenti, di giovani o meno giovani talenti che francamente vengono conosciuti poi solo grazie a Nemo. Diciamo che abbiamo cercato di evitare la via di mezzo. Il nostro obiettivo è anche quello di far lavorare e dare la possibilità a noi stessi di far lavorare delle persone più giovani. Poi è la capacità dell’imprenditore di far loro tirare fuori il massimo.

PF: Un’azienda di successo ha sempre bisogno di gente in gamba, di talenti, diciamo, se vogliamo usare un termine forse un po’ abusato ma che ha comunque ha senso. Quando si parla di talento nelle aziende di design si pensa ai designer, si pensa ai creativi puri, ma servono persone in gamba a qualsiasi livello dell’azienda. All’interno di Nemo lavorano circa 200 persone, avete già superato i 200 dipendenti. Qual è il criterio con il quale scegli talento in ogni strato, in ogni passaggio dell’azienda? Se c’è un criterio unico.

FP: Non c’è un criterio unico, mi piacerebbe ci fosse, ma è una domanda che in realtà abbraccia molto uno dei filoni di sviluppo del nostro gruppo, che riguarda la creazione di competenze specifiche. Devo dirti che la fortuna di arrivare in questo mondo totalmente d’outsider (non facevo neanche l’elettricista, quindi ho sbagliato diritto) è anche quella di avere comunque una visione a 360 gradi. Devo solo imparare, devo solo vedere chi è più bravo. Non ho nessuno con cui confrontarmi. E la cosa che mi è sempre dispiaciuta in questo mondo è la scarsa longevità delle nostre aziende. Sono tutte aziende relativamente giovani, perché le più anziane avranno 80 anni. Però 80 anni sono già 3-4 generazioni, e sono relativamente poche quelle che hanno questa età. Molte aziende finiscono alla seconda generazione. Oggi c’è un altro elemento che nasce fisiologico, ma diventa un po’ patologico, che è quello della finanza all’interno delle aziende del design. Faccio questo cappello per dire che forse, al di là della crescita del gruppo, che ovviamente soddisfa me e i miei collaboratori, c’è in realtà un obiettivo un po’ più di lungo periodo, che è quello relativo a chi gestirà queste aziende dopo. Il mio obiettivo è quello di creare già oggi quello che sarà il gestore di domani. O i gestori, perché quando me ne accorgerò e sarò già troppo in là con gli anni, sarà troppo tardi. E a quel punto sarò costretto a fare delle scelte che ho visto fare e non hanno, ad oggi, mai portato ottimi risultati, perché sei già sei fortunato se hai un orologio biologico che vedi ticchettare, e poi sarà anche che tu non ci arrivi a vederlo. E quindi in ogni caso sei costretto a fare delle scelte o lasci purtroppo ad altri la responsabilità di fare delle scelte che non sono in condizione di fare. Quindi – per farla breve – stiamo cercando di creare un gruppo di persone con cui stiamo lavorando, che sono già all’interno dell’azienda, a cui stiamo dando responsabilità sempre maggiori a tutti i livelli, con un unico fattore comune denominatore: una base culturale solida e forte.

PF: Che bello!

FP: Cioè persone che abbiano studiato. E tu vedi la differenza, c’è poco da fare. Quindi non importa cosa tu abbia studiato, importa la fatica che tu hai fatto sui libri per un determinato periodo di tempo, perché quella cosa lì ti dà una diligenza e anche una capacità di pensiero e di organizzazione che se non l’hai fatto non ce l’hai. Quindi non è vero che il 110 e lode non conta. Non è una garanzia, ma conta. Così come non è vero che non sapere le lingue bene non è importante, vanno sapute benissimo. Quindi abbiamo dei criteri. Io sono molto contento perché c’è tutto un gruppo di persone che lavora con me, che lavora più di me, che sono tutti sotto i 35 anni.

PF: Nel 2023 vi siete guadagnati un Fuorisalone Award con una memorabile installazione di Ron Gilad. Gli avete affidato tutto il catalogo e lui lo ha trasformato in un percorso. Esperienza da utente: la prima volta che l’ho visto, mi sembrava di essere in un parco di divertimenti, mi sembrava di essere in una mostra d’arte contemporanea, mi sembrava di essere in un posto strano dove succedevano cose strane. Ogni dettaglio, ogni capello, ogni pelo, ogni cosa che c’era, era lì per un motivo e tutto funzionava in una maniera molto bella e – diciamo pure – molto poetica. “Poesia” è la cosa che – se devo pensare a quell’evento – mi resta in testa. Ci racconti un po’ com’è nata questa collaborazione e come l’avete portata avanti? Perché non so, non riesco a immaginarmi il brief che gli potete aver dato e quando è arrivato lui con una proposta di questo genere cosa può essere successo?

FP: Infatti la genesi è una non-genesi, nel senso che nasceva da una nostra esigenza (in realtà se vuoi, banale) di non voler far vedere i nostri oggetti in maniera canonica. Eravamo un po’ stanchi dal paradigma solito di cubo, lampada sopra, si accende… Quindi un percorso che fosse un po’ più coinvolgente anche perché la luce è coinvolgente al di là dell’oggetto e questa esigenza ovviamente la sentivamo profondamente già da un po’ di tempo. Noi facciamo delle cose che hanno un’anima forte e che possono parlare in tanti modi. Io conosco Ron da tanti anni e non abbiamo mai lavorato insieme. La nostra è una serie ormai innumerevole di fallimenti di collaborazione. Cioè tutte le volte che ho provato a lavorare con Ron siamo arrivati a un certo punto per cui una volta lui, una volta io abbiamo detto “Ci vogliamo bene, siamo amici, chiudiamola qui”. Pensavo a questa non-idea che avevo, cioè a un’esigenza ma non sapevo, non avevo assolutamente nessuna idea su cosa significasse la mia non-esigenza. E quindi ho chiamato Ron, che in quel momento era Tel Aviv, e lui mi disse “Ah sì, sì, non ho capito, ma ho capito, comunque lo sai, con te non voglio lavorare”. Ho detto “Comunque vengo il prossimo weekend”. Stiamo un po’ insieme, parliamo un po’ e Ron mi dice “Guarda, non mi hai convinto, però io so quello che dovrei fare”. Mi ha detto “Ti do due condizioni, che tu non ci metti il becco e che io praticamente non ho budget”, che è un modo molto simpatico di Ron di lavorare. Però lui faceva giustamente le sue richieste e io, pensando di essere in qualche modo smart, dissi “Va bene, la mia condizione è che però qualsiasi cosa che tu hai in mente debba e possa avvenire esclusivamente nei nostri uffici di Milano di via Borgonuovo”. Pensando – e qua si vede che non conoscevo abbastanza Ron – di limitare i danni che fossero in primis economici, perché non mai avrei potuto immaginare invece che lui davvero aveva in mente quello che voleva fare. Aveva capito meglio di me quale fosse l’esigenza, ma soprattutto aveva già gli strumenti e il progetto in mente. Tant’è che io torno a Milano e dopo un paio di settimane mi manda due cose di idea, di concept. Aveva veramente capito tutto. Era una cosa che lui voleva già fare probabilmente da tempo, questa è la verità.

PF: Tanta poesia, ma ovviamente quando parliamo di illuminazione la tecnologia è fondamentale. Sappiamo che le tecnologie possono esaltare, possono attrarre, ma possono esaurirsi anche molto rapidamente, possono diventare vecchie molto rapidamente. Oggi c’è qualche tecnologia che tu stai guardando con particolare attenzione? Non dico che ci stai lavorando e diventerà presto una lampada, ma un ambito, un settore, una direzione nella quale stai sondando.

FP: Diciamo che più che una tecnologia in senso stretto, riguarda una modalità di utilizzo e di riutilizzo e di sostituibilità di tutta una serie di elementi soprattutto nella nostra parte di illuminazione tecnica e architetturale. Quindi parlo alberghi, negozi, musei, aeroporti che ti permettano di lavorare sugli apparecchi che ovviamente hanno un fine vita perché non durano in eterno. Il led non è eterno, così come non erano eterne precedentemente le fluorescenti, dopo X ore di utilizzo che equivalgono ad anni, ovviamente come tutte le cose perdono di efficienza. Diciamo che l’obiettivo è quello di arrivare a intervenire su un apparecchio che di fatto rimane come scocca quella originaria e tu, mettiamola così, cambi esclusivamente le gomme e l’olio. Stiamo lavorando su una serie di brevetti in questa direzione che saranno sicuramente rilasciati entro quest’anno. Per quanto riguarda la tecnologia in senso stretto di tecnologia ce n’è tantissima. Ce n’è tanta, ne viene sempre fuori e ovviamente i software poi amplificano anche la tecnologia sul prodotto, perché poi si va su una gestione, su un controllo della tecnologia. Quindi c’è un doppio strato tecnologico: quello relativo alla tecnologia stessa e [quello relativo] a chi controlla il funzionamento della tecnologia. Quindi diciamo che il nostro approccio è quello di guardare molto alle abitudini dell’uomo e alle necessità dell’uomo. Partiamo da lì e poi capiamo che tipo di tecnologia serve. Cerchiamo di non far digerire la tecnologia in senso assoluto. Questo è sempre stato il nostro modo di procedere.

PF: Ci libereremo mai completamente dei cavi, secondo te?

FP: Sì, ma non lo vedremo noi.

PF: Mannaggia la miseria! C’è un altro grande problema legato all’illuminazione. Parli spessissimo di semplificazione massima dell’esperienza da parte dell’utente, ma l’esperienza più frustrante che ci sia a livello di utilizzo della luce è quando entri nella camera di un hotel e cerchi di accendere e spegnere le luci. Quello secondo me dovrebbe essere un problema da risolvere.

FP: Quello ha a che fare esattamente con lo zelo eccessivo, pensando che dare, dare, dare ti dia un’esperienza positiva. Non è vero. Se hai 40 bottoni e ci metti 30 secondi per capire quale accendere la tua esperienza è negativa. Negativa anche perché poi in una stanza dove stai 24 ore tu quella sequenza non la impari. Quindi passi 24 ore ad arrabbiarti con gli 8 bottoni, 15 che ti servono e stai lì e giochi. Quella progettazione ha a che fare con chiedersi in maniera molto umana: “quando io entro in una stanza d’albergo, cosa desidero? Cosa voglio? Accendere la luce”. E poi da lì parte la mia esperienza. Se già quel primo passo me lo rendi difficile [non va bene]. Questo succede. Lavoriamo molto con tante catene, con tanti alberghi e siccome è tecnologia semplice, aggiungerla non è un gran valore.

PF: La troppa scelta delle volte porta alla non scelta e porta al caos.

FP: Ma sì. [Abbiamo fatto] una riunione l’altro giorno sulla gestione dell’illuminazione domestica attraverso una serie di semplicissimi software application che ti metti sul telefono. Ma tu mi vuoi dire quante sono le persone che una volta arrivate a casa vogliono continuare a giocare col telefono per accendere le luci della stanza? Io lo lancerei in terrazzo il telefono. Questo per far capire quanto bisogna essere a volte umani. Tornare a usare le mani, i piedi, le cose.

PF: La voce no?

FP: Si può fare tutto, ma il gesto più semplice [è quello] di un interruttore che fa accendere una cosa. È naturale quel gesto. La voce non è naturale anche perché poi non è che puoi avere questi microfoni così perfetti. La voce usiamola per parlare con le persone che stanno con noi in casa ma non per dire “accendi, spegni”, “cosa hai detto?” “No, non ce l’avevo con te, ce l’avevo con l’altoparlante per accendere”. Vedi che crei già una complessità? “Ah ma ho acceso”. “No, non sei tu”. Ti dico queste cose perché ne facciamo di prove queste prove in azienda.

PF: Immagino, immagino.

FP: Quindi tutta questa serie di paradigmi ce li abbiamo e dobbiamo anche resistere.

PF: Oltre all’illuminazione dove vuoi portare Nemo?

FP: L’illuminazione è già un mondo molto vasto, molto interessante. Nemo fa quel mestiere e lo sta facendo bene ma per me [l’obiettivo] è portare le persone verso l’illuminazione. Nemo è un mezzo, non è un fine, così come tutte le aziende sono dei caronti verso una conoscenza più allargata di alcuni mondi, di alcuni settori; quindi, la vivo in quel modo lì, sinceramente.

PF: Trovi più divertente lavorare con i classici o con i progetti nuovi?

FP: È più divertente lavorare per il futuro, con il futuro. Però è vera una cosa: che il 90% dei nostri progetti – come li hai definiti tu classici – non sono mai stati realizzati, quindi non sono riedizioni, sono edizioni. I progetti di Le Corbusier o della Perriand – a parte due – erano nel cassetto della fondazione e non sono mai stati prodotti prima. Lì entri addirittura in un’altra dinamica che è quella di progettare con qualcuno che non c’è più, spesso sulla base di pochi disegni e qualche foto, conoscendone un po’ l’idea e lo spirito e volendola da un lato ovviamente mantenere intatta, dall’altro facendo un po’ un salto mortale pensando a cosa vorrebbe lui oggi. Quindi se tieni a fare quel lavoro lì è un po’ più complicato perché la responsabilità è doppia. Non puoi fare la seduta spiritica.

PF: Un consiglio che ti è stato dato e che regali volentieri?

FP: Parlo di Ernesto Gismondi. Una volta, proprio all’inizio, mi ricordo che dovevo fare uno stampo di pressofusione che per me era un grandissimo investimento ai tempi. Quindi andai da Ernesto. Dico “Ernesto, guarda questa cosa, Che dici? Cosa faccio?”. E lui, che non mi rispondeva mai in maniera diretta (ma io gli chiedevo anche poco, devo dire) mi disse “Tu ce l’hai una casa, vero?” E io gli dissi “Sì”. “Allora non ti serve altro. Tutto il resto lo puoi investire in stampi”. Comunque, questo cosa significa? Significa che se credi in una cosa, poi l’investimento in stampi vuol dire essere avanti, avere un prezzo, un costo del prodotto gestibile, cioè vuol dire tante cose. L’investimento in uno stampo significa che tu credi in quello che stai facendo. Quello fu un messaggio forte, come dire “Se tu vuoi fare questo lavoro si fa così. Hai la mezza misura? Sì, perché ci sono altri modi di produrre quella stessa cosa, ma fai un altro lavoro”.

PF: Mi è capitato di sentire un grande manager italiano qualche anno fa parlare del “mal di pancia imprenditoriale”. Secondo lui è una specie di pensiero costante che prende forma con un sottile disagio fisico continuo. Ti capita di soffrire di mal di pancia imprenditoriale?

FP: No, francamente no. Capita di soffrire di solitudine imprenditoriale che non è un malessere fisico ma la solitudine nelle scelte, la solitudine nell’approccio, nel fare la cosa giusta. Ancora di più per questo [motivo] il nostro obiettivo è quello di ampliare la base di persone con cui puoi scambiare idee, prendere decisioni allo stesso livello. No, ma mal di pancia no. Ti senti solo perché devi decidere anche per gli altri, ma è anche la cosa bella.

PF: La cosa che ti fa arrabbiare di più?

FP: L’arroganza.

PF: E ne vedi tanta in giro?

FP: Abbastanza.

PF: E invece il tuo sogno più grande?

FP: Il mio sogno più grande è vedere i miei figli che creano un lavoro che non esiste oggi.

PF: Bella questa qua. C’è qualcosa che vorresti cambiare nel tuo settore? Se tu avessi una bacchetta magica e quella cosa proprio farla scomparire o cambiarla non solo per te, per tutti.

FP: Farei delle riflessioni forti sul ruolo di Milano per la luce e per il futuro.

PF: Ti chiedo di approfondire…

FP: Siamo in un momento di grande cambiamento. Le aziende cambiano. Alcune non ci sono più. Ce ne sono tantissime fuori dall’Italia che non conosciamo e che invece andrebbero conosciute e che possono far parte di un futuro che in qualche nazione è già presente, ma che noi non conosciamo.

PF: Ci guardiamo un po’ troppo l’ombelico?

FP: Sì, dovremmo essere un po’ più aperti. Il mondo è grande e il nostro, tra l’altro, non è un mondo di grandi aziende, è un mondo di piccole aziende, è un mondo sempre di più di ricerca. Più che cambiare, amplierei gli orizzonti.

PF: È arrivato il momento della raffica!

FP: Pensavo fosse questa.

PF: No, no, no, deve ancora arrivare la raffica. Allora ti ricordo le regole: 10 domande a sorpresa, solo risposte secche. Hai due jolly: una possibilità di passare e una possibilità di argomentare. Giocatele bene. Sono 10. Led o lampadine a incandescenza?

FP: Led, ma tutta la vita.

PF: Croissant o maritozzo?

FP: Croissant.

PF: Film al cinema o serie tv a casa?

FP: Serie tv ormai.

PF: Taxi o scooter?

FP: Taxi.

PF: Pizza o sushi?

FP: Pizza.

PF: Giornale di carta o giornale sul tablet?

FP: Ma possibilmente di carta.

PF: Letteratura nordamericana o letteratura sudamericana?

FP: Nordamericana.

PF: Rock o pop?

FP: Rock.

PF: Barca a vela o barca a motore?

FP: Ah no, qui non c’è proprio storia. Vela.

PF: Brera o Trastevere?

FP: Trastevere, c’è l’acqua.

PF: La domanda finale del podcast. Consigliaci un libro che tutti noi dovremmo leggere, un libro che per te è stato importante, in qualsiasi settore, in qualsiasi ambito.

FP: Lì purtroppo ti riferisci a dei momenti storici tuoi e c’è poco da fare, sono sempre quelli lì. Nessuno può non aver letto “Il giovane Holden”, nessuno può non aver letto “Il vecchio il mare”. Te ne dico due. Già quelli lì, quando li rileggi a 50 anni sono ancora più saporiti.

PF: Ti capita di rileggere libri che hai letto in gioventù?

FP: Dei pezzi, dei capitoli, delle cose quando li ritrovo da qualche parte.

PF: E ti ritrovi o vedi delle differenze?

FP: No, loro sono sempre uguali, sono più belli, sono io che sono cambiato.

PF: Grazie Federico.

FP: Grazie a te. Mi sono anche divertito.

 

 

 

Puntata registrata a Milano il 7 maggio 2024 e pubblicata il 15 giugno 2024.

La trascrizione è stata effettuata utilizzando strumenti di intelligenza artificiale e successivamente editata dall’autore.

 

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