Pittura, murales, scenografia, scultura, disegno e installazione: sono questi i mezzi espressivi di Agostino Iacurci, artista e illustratore.
Agostino lavora con le immagini e con lo spazio, su scale che vanno dal foglio di carta, agli ambienti alle superfici esterne di interni palazzi. Con lui parliamo di arte pubblica e aziende, di storie magiche e narrazioni collettive, ma anche di come si diventa un lemma dell’Enciclopedia Treccani.
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I link dell’episodio:
– Il lemma di Agostino sull’Enciclopedia Treccani https://www.treccani.it/enciclopedia/agostino-iacurci
– La Fondazione Pastificio Cerere di Roma https://www.pastificiocerere.it
– “Enea, lo straniero”, di Guido Rizzi https://www.einaudi.it/catalogo-libri/critica-letteraria-e-linguistica/filologia-e-critica-letteraria/enea-lo-straniero-giulio-guidorizzi-9788806235611/
– Museo Civico Archeologico Lavinium di Pomezia (Roma) https://www.museolavinium.it
– Biblioteca Civica Ugo Tognazzi di Pomezia (Roma) https://bibliotecadipomezia.it
– “Gods in Color: Polychromy in the Ancient World” di Vinzenz Brinkmann https://en.wikipedia.org/wiki/Gods_in_Color
– “Viaggio nell’Italia dell’Antropocene” di Mauro Varotto e Telmo Pievani https://abocaedizioni.it/libri/viaggio-nellitalia-dellantropocene-telmo-pievani-e-mauro-varotto/
– “Hypnerotomachia Poliphili” stampato a Venezia da Aldo Manuzio https://it.wikipedia.org/wiki/Hypnerotomachia_Poliphili
PF: Sono Paolo Ferrarini e questo è Parola Progetto. Parola Progetto è un podcast di dialoghi con persone che vivono di progetti, dove si racconta il design in tutte le sue forme, senza oggetti e immagini, solo attraverso la parola.
Ed eccoci qua.
Pittura, murales, scenografia, scultura, disegno e installazione. Sono questi i mezzi espressivi di Agostino Iacurci, artista e illustratore, il nostro ospite di oggi. Nato in Puglia, studia all’Accademia di Belle Arti di Roma e le sue opere sono oggi arrivate in tutto il mondo, dall’Europa alle Americhe, fino all’Asia e all’Africa. Con la sua arte interpreta lo spazio, ci gioca e lo modifica, e ovunque intervenga lascia un segno memorabile, fatto di superfici piatte, colori decisi, ma anche luci e oggetti. Si esprime con grande successo anche sulla carta stampata. Tutti noi abbiamo incontrato le sue illustrazioni sulle pagine de La Repubblica, Robinson e New Yorker, giusto per citare le testate più note, ma anche sui libri di Penguin e Einaudi. È lungo anche l’elenco delle aziende con cui ha collaborato, tra cui ricordiamo Apple, Adidas, Hermès, Hermann Miller e Starbucks. E il suo nome è anche un lemma dell’Enciclopedia Treccani.
Ciao Agostino, benvenuto a Parola Progetto.
AI: Ciao Paolo, grazie dell’invito.
PF: Allora, benvenuto Agostino e benvenuto pubblico. Per la seconda volta Parola Progetto è live da Roma. Facciamoci sentire! Che bello, che bello, che bello il pubblico.
Agostino, immagino sia difficile per te scegliere tra larga scala e piccola scala, tra la facciata di un palazzo di venti piani e un A4. Non ti chiedo quale preferisci, ma ti chiedo quali sono le differenze, sempre che ce ne siano.
AI: Ti rispondo che preferisco una sana alternanza. Le differenze sono sostanziali perché c’è di mezzo la fatica fisica soprattutto, però sono anche accomunate da un processo che è comunque il processo del disegno. Nel mio lavoro parto sempre da una visione a cui cerco di dare una forma nel disegno, che anche per la larga scala può essere su un bozzetto, su uno sketch, su un progetto che poi vado a tradurre. Quando faccio il ragionamento tengo conto anche del tempo di lavoro. La grande scala mi aiuta a sintetizzare perché voglio risparmiare fatica. In piccola scala invece mi permetto di prendere tempo, quindi c’è questo rapporto inverso.
PF: Quando parli di disegno, tu disegni a mano o usi mezzi digitali?
AI: Per me è a mano anche in digitale, perché comunque [uso] una penna digitale. Però parto sempre dal disegno a mano, dalla pittura, poi disegno a matita. Per me si mischia sempre tutto.
PF: Tra gli ospiti che sono venuti prima di te, alcuni colleghi dicevano che amano la rapidità, mentre altri preferiscono il tempo più lento di riflessione. Nel tuo caso?
AI: Io sono un po’ un diesel, ci metto un po’ a scaldarmi e poi una volta che parto vado spedito non mi ferma più nessuno. Direi lento nel ponderare, nei processi ideativi e più poi spedito nella realizzazione.
PF: Quando ti viene commissionato un lavoro, com’è il processo di solito? Cosa succede? Viene qualcuno da te e ti dice “guarda Agostino, voglio questa cosa” o sei più spesso tu che vai a proporre?
AI: Di solito mi vengono offerti degli spazi. Ecco, la mia pratica è molto ampia. Va dalle mostre in galleria, alla produzione artistica, alle commissioni d’arte pubblica, ai lavori soprattutto in passato editoriali. Per me si tratta comunque in ogni caso di occupare degli spazi. Ora mi vengono offerti degli spazi (prima me li prendevo) e io cerco di occuparli nel modo che ritengo più opportuno, chiaramente cercando di dialogare con questi interlocutori. A volte il dialogo è uno scambio più serrato, [ad esempio] se parliamo dell’editoria, dove comunque c’è una richiesta. Sempre di più sto privilegiando la mia pratica artistica, quindi in realtà ho carta bianca, ho spazi da occupare. Poi cerco sempre di rispondere molto ai luoghi, perché il mio lavoro ha sempre una natura site specific, che forse viene da questo retaggio della commissione. Quindi di volta in volta occupo questi spazi, però mi vengono sempre offerti.
PF: Mi interessa la parte in cui tu hai detto che alcuni spazi te li sei presi. Spiegami.
AI: Inizialmente, prima di ricevere le prime commissioni, mi sono preso spazio anche semplicemente per aprirmi il sito, cioè ho preso uno spazio in cui ho presentato il mio lavoro. Quando facevo i miei primi murales, li ho fatti e basta. Comunque io vengo da un background di graffiti, che poi ho abbandonato perché arrivato a una certa età non avevo nessun interesse in quel linguaggio. Non volevo più scrivere il mio nome. Però facendo poi un percorso formativo artistico, invece mi interessava tantissimo lo spazio pubblico, cioè il murales come mezzo. Quindi ho provato a portare il me evoluto dentro questo discorso dei murales. Prima prendendo degli spazi anche chiedendoli, così, spontaneamente. E poi, devo dire, ho avuto la fortuna di ricevere degli apprezzamenti che mi hanno portato delle richieste e poi adesso ho il privilegio di poter scegliere.
PF: Ti ricordi il primo graffito che hai fatto?
AI: Il graffito me lo ricordo benissimo perché andavo a scuola, forse era la quinta elementare. Ho tolto il grembiule, sono andato con i miei amici più grandi all’inaugurazione di un posto occupato a Foggia. Ero un bambino, ero la mascotte, l’unico bambino a questo evento di graffiti e ho pensato “vabbè, è una figata, voglio fare questo, da grande voglio fare questo, occupare e fare i graffiti”.
PF: Ma graffiti proprio con le bombolette spray, quelli dei film degli anni ‘80 della metropolitana di New York?
AI: Esattamente. Non nella metropolitana di New York ma nelle scuole occupate di Foggia. Scrivevo “Iaco” perché ero veramente un bambino. Avevo il Diario Vitt, quindi Iacovitti, [giocavo con] il mio cognome Iacurci; quindi, la mia prima scritta era Iaco. Però c’era già una tendenza “non graffiti”, comunque molto sintetica. Devo dire il mio stile non si è molto evoluto da allora, nel senso [che era già] molto semplice, molto diretto, mi interessava già la sintesi.
PF: E il primo lavoro commissionato, quello che ti ha fatto capire che stava diventando una professione?
AI: Il primo proprio in cui mi ricordo la gioia, c’era di mezzo Nicola La Gioia, guarda il gioco di parole. È stato quando dicevo che mi prendevo gli spazi. Ho fatto il mio sito e ho aperto i libri che avevo di cui mi piacevano le copertine. Ho mandato e-mail agli editori e uno di questi era Minimum Fax. Avevo appena fatto il sito e dopo un minuto mi ha risposto Riccardo Falcinelli, che ai tempi era art director insieme a Nicola La Gioia. Mi hanno detto “fai un bel lavoro, ti facciamo fare una copertina”. E così è iniziata la mia carriera.
PF: A me è capitato, e immagino anche a molti dei presenti, di vedere il tuo lavoro a Roma, in galleria o per strada, addirittura anche a teatro, visto che a Roma, hai fatto delle scenografie. Qual è il tuo rapporto con Roma? Ci hai studiato però non ti sei fermato…
AI: Roma è la città che ho scelto dopo Foggia, ho scelto di studiare a Roma. Per me è un po’ la mia città, perché ho abitato qui in tutto quasi una decina d’anni e ho una casa. Però poi io ho iniziato subito a viaggiare. Appena finiti gli studi ho avuto l’opportunità di andare a vivere a Norimberga per lavorare per Adidas e quindi sono stato lì un po’ di tempo. Poi sono tornato a Roma con l’idea di rimanerci perché ho deciso che non volevo lavorare in un’azienda ma volevo diventare un artista da grande, quindi con tutti gli oneri e gli onori. Ho detto “posso farlo da Roma”, quindi ho aperto il mio primo studio. Poi le vicende della vita mi hanno portato a Berlino, dove ho vissuto sette anni e da due anni vivo a Bologna. Quando parlo di vicende della vita parlo sempre della mia compagna, quindi seguendo lei, ecco, sono in giro da un po’.
PF: Credo che tu sia il primo ospite di Parola Progetto, e la prima persona che conosco in assoluto, che è anche ospitato nelle pagine della Treccani, quindi sei un lemma. Cito, “Iacurci Agostino”, ovviamente, prima il cognome, “artista italiano nato a Foggia nel 1986”, quindi proprio la data di nascita sulla Treccani, “la cui attività verte principalmente in direzione dell’interpretazione pittorica muraria su grande scala, di cui è uno dei più interessanti autori sul panorama internazionale”. Questo linguaggio un po’ aulico, un po’ antico della Treccani è fantastico. Io lo uso spesso con i miei studenti, perché ti dà quella distanza critica dalla realtà, non sembra vero. Una cosa che leggi così ti sembra immediatamente una storicizzata, però ti aiuta a vedere bene. Quando hai letto questa descrizione ti ci sei rivisto in qualche modo, ti sei riconosciuto in questo ritratto che ti ha fatto la Treccani?
AI: Ma lì per lì sì. Il problema di quando diventi un lemma vivente è che non puoi chiamare il signor Treccani per dire di aggiornare il curriculum, quindi la tua definizione è quella. Io ormai sono me a vent’anni, quindi posso fare qualsiasi cosa adesso, resto quello. Nel tempo sono cambiato, mi piacerebbe a un certo punto ricevere un aggiornamento, però ecco, è già è tanto. Già sono felice di essere diventato un lemma prima di “petaloso”, per esempio, quindi già è una piccola conquista.
PF: Quando hai letto questa cosa qua ti ha fatto piacere, ti ha dato fastidio, qual è stata la tua reazione? Ti ha lasciato perplesso?
AI: No, onorato. Ho chiamato mio padre, mia nonna, tutti i parenti, sono uscito sui giornali locali. È comunque fantastico. Scherzi a parte, è un riconoscimento. Era veramente all’inizio della mia carriera questo lemma, ormai ha dieci anni, quindi ero giovanissimo. Lo trovo anche ingiustificato, lo trovo tuttora ingiustificato, però è lì.
PF: Ma sai come ci sei finito? Qualcuno ti ha raccontato un retroscena?
AI: L’ho saputo dopo. So che la Treccani ha aggiornato le sue voci facendo dei segmenti sull’arte contemporanea, avevano scritto anche un pezzo sul muralismo, sull’arte urbana, e quindi evidentemente chi scriveva queste voci ha ritenuto degna la mia candidatura.
PF: Quanto è importante il viaggio nel tuo lavoro? Te lo chiedo perché nelle interviste parli spesso di relazione con lo spazio. Mi chiedo se questa relazione con lo spazio in qualche modo coinvolga anche il movimento.
AI: Sicuramente coinvolge il movimento. Per me il viaggio è importante, però di mio forse non sarei un grande viaggiatore. Il lavoro mi ha subito portato a viaggiare, sono uno che viaggia per lavoro e sono felice che sia così perché mi piace conoscere i luoghi incontrando delle difficoltà, delle realtà vere di lavoro, piuttosto che la dimensione turistica. Ho fatto pochissimi viaggi di turismo nella mia vita, ho sempre legato il turismo a questi viaggi, [quando] ho ricevuto una serie di proposte in giro per il mondo. Ero a Norimberga, ero un designer per Adidas e ho fatto un murales, forse proprio quello di Roma, che andò su un blog che aveva un seguito mondiale. In pochissimo tempo mi hanno chiamato in tantissimi posti del mondo e ho iniziato a viaggiare e praticamente non mi sono più fermato, ho iniziato questa vita di tour in cui in realtà non mi chiedevo nemmeno più se mi piacesse viaggiare. Lo faccio e basta.
PF: Ti è mai venuta voglia di realizzare un diario di viaggio illustrato? Alcuni tuoi colleghi lo fanno ogni tanto, raccontano il loro viaggiare. Tu racconti tante storie, ma sono molto spesso storie di luoghi. La dimensione del diario di viaggio ti si addice?
AI: Veramente non riesco a conservare niente, quindi cerco di condensare tutto nei lavori e lasciarli, liberarmene. Mi risulta difficile, sono molto proiettato nel presente, quindi anche l’idea di andare a riguardare la mia vita, mi mette subito in un mood nostalgico che non mi rappresenta. E poi penso sempre che non sia interessante, nel senso, perché testimoniarlo?
PF: Sei un accumulatore o mi sembra di capire di no?
AI: No, guarda, io ho fatto così tanti traslochi che non voglio avere niente.
PF: Vuoi viaggiare leggero?
AI: Sì. Adesso a Bologna sto ricominciando ad accumulare, però tendenzialmente no, io non ho niente. Ogni tanto quando accumulo ho bisogno di disfare lo studio, come ho fatto quando sono andato via da Roma. L’ho aperto, l’ho dato in pasta alle cavallette, ognuno ha preso quello che voleva e sono partito di nuovo con una valigia e ciclicamente cerco di rifarlo. L’ho fatto adesso quando sono andato via da Berlino, ho condensato sette anni di vita in una macchina, in un mezzo furgone.
PF: Non invidio il curatore che dovrà realizzare la monografia dei tuoi primi 50 anni di lavoro.
AI: Neanch’io.
PF: Le tue opere passano dall’essere pura rappresentazione di cose, di oggetti (penso alle serie vegetali come “Of My Abstract Gardening”, che è stato esposto qua a Roma) a soggetti altamente narrativi, fatti di storie, di simboli, a volte quasi esoterici (penso a “La Table” a Parigi). Queste due dimensioni vanno in parallelo? Le alterni, oppure rappresentano fasi distinte del tuo percorso artistico?
AI: Forse [sono] fasi distinte, nell’ordine inverso. Io sono partito da una dimensione più di rappresentazione, che veniva anche dal mio background di illustratore e quindi cercavo di condensare racconti visivi dentro un quadro, che può essere una facciata come un dipinto. E poi nel tempo in realtà, abbracciando lo spazio a trecentosessanta gradi, arrivando a una dimensione più scenografica, per me la vita davanti al quadro fa parte di queste scene. Per questo nello spazio galleristico, nello spazio che vado ad orchestrare, a scenografare, adesso anche ho inserito a volte il suono. La storia c’è, ma comprende anche te che guardi in un certo senso. E quindi il dipinto è andato a sintetizzarsi.
PF: Parliamo di questa dimensione narrativa, che trovo molto profonda, molto interessante. Di fronte ad alcuni tuoi murales, in particolare a quelli di grandissimo respiro, di grandi superfici, mi sono venuti in mente i cicli pittorici medievali, quelli che si vedono in certe pinacoteche di provincia, nelle piccole chiese di campagna. Mi sono venuti in mente, non so perché, i castelli della Val d’Aosta, le storie di armi e di amori che si vedono in quei castelli. Questa dimensione di grande respiro è fatta di pochi elementi. Sei molto sintetico nel tuo lavoro, semplice, diretto. La tua è una narrazione realizzata con pochi mezzi, come nelle narrazioni medievali, senza bisogno degli effetti speciali del Rinascimento. Quindi cose molto pulite, molto semplici, molto dirette. Tu racconti solo con le immagini o hai sperimentato anche con altri mezzi? Ci dicevi poco fa che hai iniziato a usare, ad esempio, il suono. Mi chiedo, la fotografia, la scrittura, il video: hai mai sperimentato con altri strumenti che non siano il disegno e la pittura?
AI: Li utilizzo nei processi che portano poi alla realizzazione degli spazi, però non li ho mai inseriti nelle opere. Non escludo che lo farò. Però il video lo utilizzo per documentare delle fasi. La scrittura c’è sempre, perché il progetto [parte spesso come] una serie di parole che ho appuntato, piuttosto che dei testi. Dici bene, nel senso che mi riconosco in questi riferimenti, perché secondo me c’è come una dimensione vernacolare, quasi rustica, nel senso che c’è nel mio lavoro e in generale nel mio sguardo alla vita. Quindi c’è quell’aspetto di ridurre al minimo.
PF: Qual è stata la storia più complicata da raccontare, quella in cui hai dovuto fare un percorso di sintesi più difficile da raggiungere?
AI: Diciamo che io tante volte non racconto una storia specifica, metto insieme una serie – o meglio – mi espongo a una serie di storie, mi immergo in una serie di storie e dopo ne vengo fuori come pregno di queste storie e tiro fuori un’immagine, che non ha poi dei veri riferimenti a questo o a quello. La cosa bella è vedere come queste immagini a loro volta informino nuove storie; quindi, che arrivi l’interlocutore di turno e mi racconti una storia che lui crede sia legata al mio dipinto, [della quale] invece io non ero assolutamente consapevole.
Ti faccio un esempio. Ho fatto questo dipinto ad Aielli, un borgo in Abruzzo. Ho dipinto su unna casa, che è un bellissimo portale Cinquecento, però la casa è moderna. Ho scelto di dipingere due cardi blu, perché è una pianta che mi piace, che ho sempre guardato. So che c’è lì nel parco nazionale d’Abruzzo, sul Gran Sasso in realtà, e sapevo di questa coperta, la coperta taranta, coperta tipica abruzzese che ha due colori, rosso e blu. Quindi dipingo i cardi, senza mai parlare con il proprietario della casa, perché viveva a Roma. Il proprietario della casa arriva, mi abbraccia e mi dice “grazie per aver omaggiato mio padre e la mia famiglia”. Invita me e un mio collaboratore a prendere un caffè e ci fa vedere una cesta con dei cardi intrecciati che il padre faceva tutti gli anni. Una volta all’anno andava a raccogliere questi cardi, faceva una composizione ed era il simbolo della loro famiglia. Il padre era morto da un anno ed era il primo anno che non avevano questo nuovo rituale. E quindi, capito la magia?
PF: Credo che sia un vero lavoro d’artista se la tua storia, se la tua interpretazione scatena poi altre storie.
AI: Me lo auguro.
PF: Te lo confermo. In un’intervista a proposito di “Antiporta” alla biblioteca Ugo Tognazzi di Pomezia – uno dei tuoi lavori che sinceramente mi colpiscono di più – hai detto: “Credo che la realizzazione di un dipinto possa modificare la percezione di un luogo, creare dei momenti di dibattito, funzionare da attivatore di una comunità”. “Comunità” è una parola chiave del contemporaneo. Se la usiamo in inglese, community, si apre a un mondo online, forse diverso rispetto alla comunità che forse intendevi tu. Cos’è per te la comunità? Riesci a dare una definizione di quello che è per te la comunità?
AI: Beh, questa è difficile.
PF: Certo, mica facciamo solo domande facili.
AI: In quel caso io mi riferivo proprio alla comunità degli abitanti, dei cittadini. Per me la comunità sono le persone che vivono in un luogo. Io mi riferisco sempre di più alle comunità, intese proprio come cittadini. Ho un’idea di prossimità, di chi fa l’esperienza, di chi incontri, di chi ti maledice mentre dipingi. Quando parlo di comunità, penso proprio a delle facce delle persone, a delle voci. Però poi lo estendo a qualsiasi altra forma di comunità. Non tutti poi hanno accesso, c’è pure chi non può uscire di casa, ma fanno anche loro parte della comunità. Quindi per me, in quel caso, quando parlo di arte pubblica o di murales, ho proprio in mente delle persone.
PF: Ci racconti la storia di questo progetto di Pomezia?
AI: Il progetto nasce in realtà dal Pastificio Cerere, da Marcello Smarrelli, un curatore e amico, con cui ho fatto tante cose. Lui mi ha offerto la possibilità di intervenire su questa biblioteca, che ha un’architettura un po’ particolare. Sta lì a Pomezia, in centro, diciamo nel nucleo fascista della città. Mi sembrava interessante perché questa biblioteca è tutta di cemento, però era già dipinta e quindi non andavo a intaccare il cemento. A Pomezia c’è il Lavinium, un sito archeologico dove si narra che sia giunto Enea per fondare Roma. Quando sono andato a fare i sopralluoghi, mi hanno mostrato il Museo Lavinium, dove c’era una porta che si dice fosse della tomba di Enea. In quel periodo avevo letto un libro bellissimo che si chiama “Enea, lo straniero”, di Guido Rizzi. Quel libro rileggeva Enea come l’immigrato che arriva sulle coste laziali, dopo una guerra, fa le sue peregrinazioni portandosi i penati, il padre e il figlio, sulle spalle. Quindi mi interessava sovvertire questa storia. Poi era una biblioteca, quindi perché non lavorare su un discorso letterario? Mi sono riletto l’Eneide, oltre a Guido Rizzi, e ho trovato gli elementi che mi interessavano. In più c’era il discorso della porta, quella biblioteca ha una grande porta che ricordava le falde di un libro, e l’antiporta nei libri seicenteschi è pagina prima del frontespizio. Quindi c’era questa idea di creare un’antiporta per questo racconto. E poi al suo interno, a parte quello che vedi, questa grande decorazione rimanda anche a un mondo decorativo romano, ci sono tante cose divertenti dentro. Ho letto per esempio che secondo recenti studi l’hippos, che noi immaginiamo [essere] il cavallo di Troia, in realtà [sembra] fosse una nave. C’è stato un errore di traduzione, perché noi immaginiamo l’hippos come un cavallo, ma in realtà l’hippos era un tipo di nave dei Fenici. Quindi [nel murales] c’è questo cavallo che è una nave, e una serie di altre cose.
In più, un discorso che io porto avanti da tempo, è quello di lavorare sui cliché dell’antichità, riprendendo i colori originali. C’era questa mostra bellissima “Gods in Color” in cui questo archeologo, [Vinzenz] Brinkmann, aveva ricolorato le state antiche greco-romane, che somigliano più a delle cose disneyane, con l’idea di riavvicinare l’aulico alla sua vera natura, che era popolare, oltre l’idea che abbiamo di un mondo antico monocromo e bianchissimo.
PF: A proposito di colore, tu non hai paura del nero, vero? Lo usi tanto?
AI: Sì. Non so perché dovrei avere paura del nero.
PF: Soprattutto quando si fa qualcosa di così pubblico, nel lavoro di molti tuoi colleghi vince la dimensione del colore. Magari il nero viene usato molto quando ci sono delle scritte. Tu di scritte praticamente non ne usi, però usi moltissimo il nero.
AI: Per me è fondamentale perché dà senso a tutti gli altri colori. In realtà i colori non li chiamo mai per nome, nel senso non penso “adesso uso il rosso, adesso uso il verde”. Anzi, io li chiamo coi codici, quelli NCS, quindi io uso il 9000-N.
PF: Sono codici espressivi anche quelli, in un certo senso.
AI: Sì, sono radiazioni di cui ho bisogno per dar vita a quella visione.
PF: Un’esperienza bellissima di immersione quasi totale nel colore è un progetto dell’anno scorso, durante la Design Week di Milano, Largo Treves, proprio nel cuore di Brera. Ti è stato affidato un intero edificio che è diventato, possiamo pure dire, il landmark della Design Week del 2023. Parlo di “Dry Days, Tropical Nights”, un’installazione che coinvolgeva tutto il palazzo, dentro e fuori, in cui ti sei immaginato la desertificazione della Lombardia. Raccontacelo.
AI: Quel progetto è stato uno dei miei progetti più ambiziosi in assoluto. [È stata] una bellissima coincidenza. Mi è stata offerta da Cristiano Seganfreddo (che è l’editore di Flash Art), Fuorisalone, e questo brand che si chiama GLO, [la possibilità] di utilizzare per l’ultima volta un palazzo iconico di Milano, in realtà di me un po’ dimenticato, progettato da Enrico Arrighetti, che tra l’altro in quell’anno veniva celebrato durante il Salone, e tuttora credo ci sia una mostra. Mi è stata offerta la possibilità di creare un’installazione lì dentro. Da un lato io volevo onorare l’ultima volta che si poteva entrare in quel posto, facendo un intervento minimo. Dall’altro però volevo sfruttare l’occasione per fare qualcosa di colossale, perché l’occasione era colossale. Quando sono entrato in quel luogo (parto sempre dai luoghi) l’ho visto un po’ come le vestigia di un posto post-apocalittico, un po’ abbandonato, questa architettura, tutte queste colonne in fila che mi hanno fatto pensare un po’ a una foresta, a un palmeto. In quel periodo ho letto un libro di Mauro Varotto e Telmo Pievani, che si chiama “Viaggio nell’Italia dell’Antropocene”, che racconta il viaggio di Goethe in un’Italia mille anni dopo il suo viaggio in Italia, quindi nel 2780 e qualcosa, basandosi però sulle vere proiezioni geografiche. Quindi lui incontra l’Italia che sarà che, stando ai dati che abbiamo, è un paesaggio tropicale desertico, per la maggior parte sommerso. Da lì viene anche il titolo “Dry days, tropical nights”, perché i giorni secchi e le notti tropicali sono due dei marker del surriscaldamento globale, proprio la conta delle notti tropicali ci dice quanto si sta riscaldando il nostro pianeta. Quindi mi è venuta in mente l’immagine di questo paesaggio vegetale, dove però la vegetazione non c’è, c’è solo sotto forma di silhouette di ferro e tubi elettrificati.
PF: E adesso quel palazzo sta piano piano venendo giù.
AI: Sapevamo che sarebbe successo e la cosa interessante è che avrebbero dovuto togliere la mia installazione, però in realtà è rimasta lì, sta venendo giù letteralmente insieme al palazzo il mio lavoro. È strano vedere come la città si trasforma. Uno pensa ai beni immobili invece [non lo sono].
PF: Ci sono passato accanto non più tardi di un mese fa e ho visto che era ancora tutto su esattamente come al Salone dell’anno scorso. Ho pensato “magari Agostino ha fatto un lavoro talmente bello, si sono talmente affezionati a questo progetto, a questo edificio e a questa installazione, che magari decideranno di tenerla”. E invece no.
AI: Diecimila euro al metro quadro è il costo di un appartamento di quelli che costruiranno, minimo. Quindi con tutto l’amore che possono avere per me.
PF: L’immobile vale di più dei soli e delle lune che avevi messo in facciata.
AI: Ma per fortuna. Ma chi la vuole e questa responsabilità?
PF: C’è un luogo dove ancora non sei intervenuto, che ti sogni la notte o che vorresti tanto modificare?
AI: Di notte per fortuna sogno altro. Già lavoro tutto il giorno. Guarda, mi viene in mente un parco o un giardino botanico. Vorrei invertire. Anziché rappresentare la natura che tanto mi interessa, o le piante, o il paesaggio in realtà più che la natura. Stare dentro un paesaggio e vedere cosa ne viene fuori.
PF: Qualche intervento nella natura l’hai fatto, hai lavorato anche dentro dei vigneti, giusto?
AI: Sì, sì, ma se devo sognare sogno in grande. Immagino un parco tutto mio.
PF: A proposito di alberi, il tuo collega Emiliano Ponzi mi ha detto che per lui la cosa più difficile da rappresentare sono gli alberi. Qual è la cosa invece per te più difficile da realizzare, il tuo scoglio personale?
AI: Da disegnatore ti direi che secondo me la cosa più difficile sono gli sguardi, cioè fare degli sguardi, dei volti non banali o comunque che aggiungano qualcosa. Direi quello. Però non è proprio il mio scoglio personale, perché io l’ho proprio messo da parte.
PF: Lo schivi direttamente.
AI: Sì, ho cambiato direzione.
PF: Un’altra cosa molto bella del tuo lavoro è che molto spesso metti all’opera artigiani e maestranze locali per i progetti che realizzi. C’è una collaborazione, un incontro, una storia per te particolarmente significativa in questi scambi?
AI: Sono tutti significativi, perché lavorare con gli artigiani significa comunque affidarsi alle loro mani e io quasi sempre vado con delle idee che prendono forma proprio grazie a loro. Quindi a volte dai limiti della loro tecnica dipendono poi i limiti del mio lavoro. Quindi è sempre molto interessante lo scambio. È stato emozionante incontrare una realtà come quella di San Patrignano, perché ho scoperto che nella comunità fanno tantissime cose e una delle tante cose che fanno sono le carte da parati, carte da parati dipinte a mano di cui sono un’eccellenza mondiale. Domitilla Dardi, una curatrice romana, mi ha invitato a fare un progetto e a collaborare con loro e quindi sono stato in comunità a San Patrignano. È stata veramente incredibile l’esperienza di entrare in questa città, in questa collina (che sta comunque a due passi da Bologna, da dove vivo) e scoprire questo mondo di altissimo artigianato, in cui loro producono per realtà internazionali. È un mondo comunque poco noto, [ma] fanno un lavoro incredibile. E poi con tutto il carico delle storie che si incontrano, devo dire che è stato un momento che mi ha molto toccato, mi ha sorpreso e poi mi ha dato un esito che non immaginavo, ma per mia ignoranza.
PF: Ci sono delle situazioni a cui hai detto di no, qualche proposta che ti è stata fatta e tu hai rifiutato?
AI: Tante. Però, non è che si possa dire, è inelegante.
PF: Magari ci puoi girare attorno.
AI: Per me una buona discriminante è questa: le proposte che arrivano da gente che mi dice “mi serve per ieri”, ecco, a quelle dico “vabbè, allora me lo dovevi dire l’altro ieri”. Questo tipo di proposte sono quelle per cui non faccio difficoltà a rifiutare. Poi in realtà io sono uno che valuta tutto perché vedo ovunque opportunità. Le cose più belle sono nate dalle proposte più improponibili; quindi, in realtà io valuto tutto con grande attenzione. Alla fine, la grande discriminante spesso è il tempo disponibile.
PF: Hai un motto?
AI: C’è una frase che mi piace molto. È una frase del latino che è “nulla dies sine linea”, che vuol dire “non un giorno senza una linea”, una frase che Plinio il Vecchio attribuisce ad Apelle, al pittore, dicendo che non ha speso neanche un giorno della sua vita senza disegnare. Non passa un giorno che veramente non mi occupi di pensare a cosa fare col mio lavoro, con la mia arte. E poi proprio il mio motto personale, che poi vorrei messo sulla mia lapide, è “non saltò mai un pasto”, che è un po’ la stessa cosa.
PF: Qual è stato l’incontro più importante della tua vita professionale, quello da sliding door?
AI: Tutti i miei incontri sono stati importanti, quindi sceglierne uno sarebbe far torto ad altri, perché ci sono veramente almeno dieci persone che mi hanno cambiato la vita. Considera che ce n’è uno per l’editoria, ce ne sarà uno per l’arte, uno per l’arte nel mondo, uno per i murales. Quindi se penso a un momento sliding door, forse devo pensare alla formazione. E quindi forse un professore che avevo in accademia che veramente disprezzava il mio lavoro. Lui è una persona a cui io penso quando ottengo un riconoscimento in campo artistico. Vorrei proprio andarglielo a dire. Il conflitto con questa persona è una cosa che poi rimasta lì, è molto trap questa cosa, però c’è la rivalsa, anche se la rivalsa sociale è una cosa che non ho. Però vorrei proprio chiamarlo. Per me è stata una cosa devastante, ma lui non neanche si ricorda. Magari mi direbbe pure “ma a me piaceva il tuo lavoro”. Chiaramente è tutto nella mia testa.
PF: Magari avevi solo capito male.
AI: Sicuramente.
PF: Agostino è arrivato il momento della raffica.
AI: Non vedevo l’ora.
PF: Tutti gli ospiti aspettano la raffica con grande ansia. Ti ricordo le regole, le ricordo al nostro pubblico. Sono dieci domande a sorpresa che Agostino non ha visto. Solo risposte secche, una possibilità di passare, una possibilità di argomentare. Ok? Pronto? Vamos. Città o campagna?
AI: Città.
PF: Colazione dolce o salata?
AI: Colazione salata.
PF: Vino o birra?
AI: Vino.
PF: Ci hai pensato. Vecchiaia di lavoro o di riposo?
AI: Vecchiaia di lavoro.
PF: Hai un minuto per spendere mille euro. Cosa ci fai?
AI: Passo!
PF: Passi addirittura. Illustrator o acquerello?
AI: Adesso illustrator.
PF: Se potessi portarti a casa un quadro da un museo, chi sceglieresti tra Picasso o Matisse?
AI: Matisse, dai.
PF: Puoi scegliere di fare un mese a bottega da un maestro del passato. Vai da Caravaggio o da Raffaello?
AI: Da Raffaello perché secondo me era meglio organizzata la bottega. Ho argomentato.
PF: Hai argomentato. Ne hai ancora due. Attenzione, ti sei giocato l’argomentazione e anche il passo, per cui sei obbligato a rispondere. Se potessi scegliere un committente, il papa o Elon Musk?
AI: Il papa, tutta la vita.
PF: Sul tuo biglietto da visita, artista o progettista?
AI: Artista.
PF: Ok, basta. La raffica è finita è andata da Dio, direi. Agostino, la domanda finale del podcast: qual è un libro per te importante che dovremmo leggere anche noi?
AI: Visto che chiaramente questa me la so preparata, visto che siamo a Parola Progetto, ho pensato un libro in realtà che è più da guardare che da leggere. È un classico che probabilmente tanti conoscono. È “Hypnerotomachia Poliphili”, un libro che è stato scritto nel 1490, realizzato dalla bottega di Aldo Manuzio, uno dei più grandi stampatori italiani. È un capolavoro dell’editoria italiana, che da leggere è un mattone di cinquecento pagine, è pure difficile da capire, però è uno dei libri più belli (inteso come oggetto) che sia mai stato creato. Ha dentro delle innovazioni che poi sono state riprese da futurismo, da E.E. Cummings, come impaginare i caratteri come se fossero delle immagini, delle illustrazioni bellissime. È un libro che ho usato come fonte per un lavoro, per me ha un valore personale. Esiste anche un’edizione tascabile, per quanto possa essere tascabile un mattone di cinquecento pagine, però consiglio a tutti sfogliarlo almeno una volta nella vita perché è di una bellezza incredibile. E anche la storia che racconta è pazzesca.
PF: Grazie Agostino, grazie per essere stato con noi.
AI: Grazie a voi.
…
PF: Qual è il tuo proverbio preferito?
AI: Perdonatemi per la pronuncia perché è napoletano e io non sono napoletano, ma è “o tavùto nun tene sacche”, nella versione “o tavùto non tene tirette”, che vuol dire che la barra non ha le tasche o non ha i cassetti e quindi ci ricorda che i beni materiali li lasceremo sulla terra nella vita successiva.
Puntata registrata a Roma il 19 marzo 2024 e pubblicata il 15 aprile 2024.
La trascrizione è stata effettuata utilizzando strumenti di intelligenza artificiale e successivamente editata dall’autore.
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