Parola Progetto About
STAGIONE 6 — EP. 2

Patrick Abbattista: comunicare e raccontare l’autenticità del design

10/2023 — 36:46

“Un marketer innamorato del design”: Patrick Abbattista si presenta così.

Dopo un inizio di carriera tra marketing, eventi e comunicazione, capita quasi per caso nel mondo del design e non lo lascia più. Nel 2015 fonda Design Wanted, una piattaforma di comunicazione e progetto editoriale che raggiunge ogni mese oltre 16 milioni di persone nel mondo.

Nella puntata di questo mese ci racconta di come comunicare il design e la sua autenticità, usando i social ma non solo. Parliamo anche di fumo e sostanza, di archivi, di critiche, di domande ma anche di rituali e di gelato.

 

I link dell’episodio:

– Il sito di Design Wanted https://designwanted.com

– Anson Cheung https://www.linkedin.com/in/ansondotdesign/  

– Architecture Hunter di Amanda Ferber https://www.instagram.com/architecture_hunter/

– Il libro di “Antifragile. Prosperare nel disordine” di Nassim Nicholas Taleb https://www.ilsaggiatore.com/libro/antifragile 

Sono Paolo Ferrarini e questo è Parola Progetto. Parola Progetto è un podcast di dialoghi con persone che vivono di progetti dove si racconta il design in tutte le sue forme, senza oggetti e immagini, solo attraverso la parola. 

Ed eccoci qua. Oggi siamo a Milano con Patrick Abbattista, fondatore di Design Wanted. Patrick nasce a Milano, dove studia comunicazione alla Cattolica, laurea a cui segue il master in marketing e comunicazione Publitalia 80 e la specialistica in management presso la Bocconi. Lavora per qualche anno tra comunicazione e grande distribuzione, facendo crescere con costanza la sua passione per il marketing. Nel 2009, per caso, grazie a un caffè con un amico d’infanzia, scopre il mondo del design e inizia a farne parte, prima come socio di Design 4 2 Day, poi dal 2015 come fondatore di Design Wanted. Avviato come account Instagram, oggi Design Wanted è anche una testata giornalistica, rapidamente diventata punto di riferimento per l’informazione e la promozione del design in Italia, ma anche all’estero. Negli anni Patrick ha sviluppato progetti per Pedrali, Paola Lenti, Alessi, BNB Italia, Amazon, Dyson, oltre a fiere e associazioni governative.

Ciao Patrick, benvenuto a Parola Progetto. 

PA: Ciao Paolo, grazie per l’invito e per questa introduzione. 

PF: Vorrei partire da una frase che descrive la tua professione, che tu usi per descrivere la tua professione: “Sono un marketer innamorato del design”. Cosa vuol dire questa cosa qua? 

PA: Questa è una domanda che mi fanno spesso e ci sono arrivato un po’ in realtà anche in seguito alle esperienze fatte. Dico che sono un marketer innamorato del design perché pur avendo studiato marketing sono sempre partito, dopo aver scoperto il design, dalla frase di Paul Rand che dice “il design è il silent ambassador del marketing”, quindi del brand. Sono innamorato del design semplicemente perché è sostanza. Il marketing troppo spesso è fumo, ahimè, e credo che debba essere al servizio del design in questo caso. Quindi è un po’ quello che ha generato la sintesi un marketer innamorato del design. 

PF: Certo. Infatti, hai raccontato spesso anche in altre interviste, in altre occasioni che al design ci sei arrivato un po’ per caso e però quando ci sei arrivato non te ne sei più allontanato. So che c’entra un caffè con un amico. Raccontaci per bene. 

PA: Questa persona era con me all’asilo, eravamo compagni di banco all’asilo, poi non l’ho rivisto per vent’anni. Un giorno uscendo dall’ufficio in una realtà in cui lavoravo, cos’era, 2008 credo 2009, ci siamo ritrovati, mi ha raccontato di questo blog Design 4 2 Day – che tra l’altro hai pronunciato perfettamente prima – e ho iniziato a scoprire i progetti di design, quindi in senso ampio: mondo arredo, tecnologia, automotive e via dicendo. Ed è così che è nata un po’ l’idea di collaborare con lui occupandomi del marketing. Poi da lì ne sono rimasto estremamente affascinato. 

PF: Quindi da subito sei entrato nel design inteso nell’accezione anglosassone; quindi, non inteso alla milanese brianzola “design uguale arredamento”, quindi era già una visione molto precisa di quello che si intende per design. 

PA: Assolutamente sì. E credo che questo abbia fatto anche un po’ la differenza nel mio percorso, perché mi sono sempre anche definito un po’ un outsider nel settore. Ho sempre percepito che in Italia il design equivale a mondo arredo, lighting e annessi, mentre mi ha sempre invece attratto l’idea di un design molto più trasversale; quindi, sì era l’idea anglosassone che poi ho scoperto in seguito essere. 

PF: Su Facebook Design Wanted ha 50 mila follower più o meno, su Instagram hai superato il milione, gran traguardo. Gli iscritti alla newsletter sono ormai 14 mila, quindi parliamo di numeri piuttosto importanti. In totale Design Wanted raggiunge 16-17 milioni di persone al mese, quindi un numero importantissimo, non solo per Italia, a livello internazionale siete messi molto bene. Quindi, siete i primi in Italia e tra i primi al mondo. Ti fanno impressione questi numeri o è quello che volevi raggiungere fin dall’inizio? 

PA: Non era sicuramente nei piani, ovvero era l’ambizione ma non pensavo di arrivare a questi numeri, onestamente. Se mi fa impressione? Ni, perché quello che cerco sempre di spiegare anche alle aziende è che la presenza social è un po’ effimera, nel senso che dipende troppo dagli algoritmi, dipende molto da nuovi social che vengono lanciati. Vedi Threads ultimamente, che poi è un po’ sparito. Non so se ti ricordi Clubhouse, durante il Covid, i lockdown, che poi è sparito dalle scene. Quindi no, non mi impressionano in quel senso. Sicuramente mi hanno aiutato ad aprire molte porte, soprattutto agli inizi, però sono straconvinto che la relazione umana – che è poi la possibilità di portare a terra questi numeri in contatti, eventi e via dicendo – sia fondamentale. 

PF: In quanti anni hai raggiunto il milione su Instagram? 

PA: Il milione, se non ricordo male, in forse quattro anni. Siamo arrivati subito a 100.000 follower, ma nei tempi d’oro di Instagram. Anche qui un colpo fortunato, perché un amico che abita a Los Angeles fece un corso su Instagram. Era il 2015, stava esplodendo in America, (seppur fosse nato molto prima in realtà) e quindi feci il corso e dissi: “Sai che c’è? Forse è il canale da cui ripartire”. E da lì è ripartito il mio progetto nel mondo del design. 

PF: Instagram, secondo te, è il futuro della comunicazione del design o è una delle possibilità? 

PA: Oggi è un canale fondamentale, però se ti devo dire qual è il canale che mi sta dando più soddisfazioni, per quanto sia più piccolo, è LinkedIn perché raccoglie un’utenza estremamente professionale e profilata quando parliamo di industrial design. L’algoritmo funziona molto meglio, c’è un’interazione molto più efficace, vivace se vuoi. E poi la verità è che devi comunque sempre preoccuparti – se sei un brand – di essere su vari canali e di lavorare chiaramente custom per ogni canale. Quindi sì, Instagram funziona. Ci sono altri canali che funzionano molto bene. TikTok è ancora un po’ da esplorare per il mondo del design ma sì, è assolutamente oggi l’asset più importante. 

PF: Parola Progetto è un qualcosa che cresce, che è cresciuto negli anni, molto grazie al passaparola, alla relazione umana di cui parlavi prima. Ecco, postare semplicemente il logo, le immagini porta poco. Invece l’interazione, per quanto piccola che sia, su LinkedIn porta degli ascoltatori anche molto fedeli, persone che ritornano. Quindi un po’ mi riconosco in quello che stai dicendo, anche senza avere nessuna strategia alle spalle (perché io posto e poi aspetto che succeda qualcosa).

PA: In realtà è proprio l’approccio genuino che funziona, questa è un’altra cosa che cerco sempre di spiegare alle aziende. Quando si è troppo patinati, si è troppo controllati manca quell’elemento grezzo della comunicazione, che in realtà è quello che piace molto di più perché si vede l’anima dietro al brand o dietro la persona. Quindi mi trovi totalmente d’accordo. 

PF: Avete fatto un grande salto un po’ di tempo fa: avete deciso di passare da pagina Instagram, da strumento social, a diventare a tutti gli effetti una testata giornalistica. Oggi, infatti, siete una testata giornalistica a tutti gli effetti, Design Wanted è una testata. Quindi, passami la frase semplice: da influencer siete diventati editori. Sono curioso di sapere per quale motivo avete deciso di fare questo passo molto importante.

PA: Vuoi la risposta vera o quella…

PF: Abbiamo parlato di genuinità, voglio quella vera verissima!

PA: Ovviamente non ho mai amato il termine influencer e non ho mai amato le figure degli influencer così come vengono concepite, diciamo, nell’immaginario comune. Il passaggio è stato dettato di fatto da due fattori. Uno molto pratico e legato al Paese Italia, ed è quello per cui le aziende che investono su testate giornalistiche hanno un ritorno economico perché poi possono recuperare parte degli investimenti. Questo non era molto pratico anche per una questione di competitività del progetto. Il secondo motivo è stato più legato alla percezione, perché quando mi sedevo al tavolo con le aziende che vedevano questi grandi numeri mi dicevano “Voi siete degli influencer, non come XY”, c’era qualcosa che ribolliva dentro e mi infastidiva. Poi la verità è che sono estremamente convinto che gli influencer siano gli esperti delle loro tematiche, delle loro materie. Quindi quel tipo di influencer, se vuoi “alla Ferragni” (perché è un po’ quella più famosa), chiaramente nel design è un mondo ancora anche da costruire. Non era nelle mie corde. Siamo arrivati a creare una testata perché da comunicatore ho sempre avuto l’idea di creare un canale di comunicazione qualificato e sicuramente Instagram all’inizio dettava le regole, quindi eravamo percepiti come influencer e così andava. Poi i passaggi si fanno nel corso del tempo.

PF: Design Wanted nasce nel 2015 da subito con l’obiettivo di portare digitalizzazione e comunicazione nel design. Digitalizzazione e comunicazione nel 2015 significavano qualcosa di molto diverso. Sono passati quasi dieci anni, di mezzo c’è stata una pandemia per cui le cose sono cambiate tanto. Oggi diamo per scontato il concetto di comunicazione digitale, ma nel design nel 2015 ci si guardava ancora attorno con grandissimo sospetto, soprattutto in Italia. Cos’è cambiato in questi dieci anni? Hai visto dei passi avanti da parte del mondo del design o siamo ancora un po’ dove eravamo nel 2015?

PA: È difficile generalizzare, ma ti posso dire che intanto molte aziende hanno rifatto il sito, che non era un passaggio scontato. La cosa che ho visto cambiare maggiormente in questi anni è stato sicuramente il rifacimento del sito che è stato compreso come asset di comunicazione fondamentale. Poche aziende ancora – devo essere sincero – hanno capito il valore strategico della comunicazione digitale e quindi la utilizzano in quel modo. Anche se ho visto comunque grandi passi avanti e credo che in questo il Covid abbia aiutato perché – forzatamente a casa – le aziende cercavano ad inventarsi nuovi modi di stare in contatto col mercato. Certo è che io sono un convinto sostenitore del modello ibrido, quindi sia fisico che digitale. Le aziende certamente devono continuare a fare eventi, i designer devono continuare a presentarsi agli eventi. Il digitale deve essere un modo per arrivare dove non arrivi normalmente o comunque per aiutarti ad avere una presenza costante quando magari stai facendo altro. È un po’ quello il tema. 

PF: Più fotografia o più video, secondo te? La comunicazione digitale del design funziona meglio con la fotografia statica o con il video? 

PA: Decisamente video. L’idea è anche quella che ti possa portare dietro le quinte quindi. Una foto non è in grado di fare questo passaggio. 

PF: Correggimi se sbaglio: più il video di backstage, making of, i processi, i procedimenti eccetera, piuttosto che l’utente finale che si gode il suo divano nel salotto? Qualcosa di questo genere? 

PA: Il secondo lo vedo un po’ noioso, nel senso che ci sta ma è una forma di comunicazione che deve arrivare da chi usa il divano, secondo me. Che è un po’ l’UGC [user generated content, n.d.r.], il contenuto generato dagli utenti. Sicuramente le persone amano vedere quello che non vedono in maniera ordinaria, quindi entrare nel mondo delle aziende, scoprire come lavorano. Lo sei bene no? La comunicazione è fatta di proclami: “siamo tutti sostenibili”, “siamo tutti Made in Italy”, “siamo tutti fatti a mano”. Il difficile è vederla questa cosa, no? Farla toccare con mano a livello digitale è più complicato. 

PF: Poi secondo me anche nella comunicazione si pensa sempre al vendere, vendere, vendere, giustamente. Comunque, è uno degli obiettivi della comunicazione. Ma credo che una delle chiavi della comunicazione del design sia anche quella della conservazione della memoria. Nel senso che tutto quello che fai comunque ti tornerà utile nel futuro. Penso ad esempio alla quantità di investimenti durante il Salone del Mobile. Ogni azienda (divani, luce, marmo, parquet), qualsiasi azienda spende milioni – letteralmente – per il Salone del Mobile. Se vai a cercare una documentazione di quello che è successo tre anni fa, non la trovi, è praticamente impossibile, se non magari nei meandri di qualche sito, sempre che durante il rinnovamento non abbiano buttato tutto. Però non si riesce più ad avere una ripetizione, una narrazione di quell’esperienza.

PA: Verissimo! Questo è un altro aspetto del digitale che cerco sempre di raccontare: il fatto che i contenuti restino nel tempo. Un tempo era più facile comprare riviste, conservarle, raccontare anche quella storia attraverso le riviste. Oggi il digitale, se utilizzato bene, è un archivio. È un archivio per l’azienda, per ritrovare quello che ha fatto in passato, ma è un archivio per gli utenti. Va a raccontare la storia dell’azienda nel corso degli anni e – sì, hai ragione – spendono un sacco di soldi in eventi che iniziano e finiscono in una settimana (che sappiamo bene che sono quattro giorni tendenzialmente) però investono poco sullo storytelling, investono poco sulla memoria storica che dicevi prima, su archiviare le attività che hanno realizzato.

PF: Sì perché ci si aspetta magari tanto contenuto generato dagli utenti che ti fanno una foto e poi si dimenticano di te. Magari non ti taggano nemmeno, o non ti mettono neanche un hashtag per cui diventa una cosa estremamente personale, soggettiva che poi si perde nei meandri dei propri rullini fotografici o dei propri ricordi, mentre l’azienda poi non trae vantaggio da questo tipo di contenuto. 

PA: E tra l’altro che c’è anche un altro problema. Si perde sicuramente nei telefoni di chi passa, ma molto spesso le aziende quando vengono taggate neanche ripostano. Secondo me è un errore strategico perché è un modo per far vedere che ha avuto visitatori. L’altro tema legato al Salone in questo caso è che c’è tanto da raccontare in quel periodo. Quindi un errore che secondo me le aziende fanno (ma in generale chi comunica) è che condensa troppo in quella settimana e si dimentica poi di andare o anticipare magari prima o a rilanciare dopo, perché il mercato va avanti non si ferma al Salone. Quindi la comunicazione digitale ti aiuta a estendere il valore del nuovo lancio, delle iniziative via dicendo. 

PF: Se penso a quello che fa la moda con il “pre” di qualsiasi cosa (il pre-collezione, il pre-sfilata, il pre-evento) e poi con il “post”. Immagina anche tutto quello che porta al grande evento che può essere il Salone, può essere la Design Week di Stoccolma, può essere quella di Como, può essere Edit, può essere qualsiasi cosa. Il pre sarebbe molto divertente, molto bello, darebbe degli spunti molto interessanti anche per la memoria delle aziende. Su questa cosa insisto tanto: il digitale lo pensiamo sempre come una cosa per il futuro e invece no, [vale] tantissimo anche per il passato. 

PA: È vero.

PF: La tua carriera ha preso il via nel largo consumo ed è proseguita nell’head hunting, nella comunicazione e negli eventi. Immagino che tu sia arrivato al mondo del design con degli obiettivi ben precisi. Li abbiamo già visti, ma sappiamo che – come in tutti i settori – il design ha le sue logiche, le sue rigidità, le sue sorprese. Immagino che ti sarai trovato in difficoltà più di una volta all’inizio, pensando di trovare qualcosa ma poi dici: “no, invece funziona così”. C’è uno scoglio che non sei riuscito a superare e che in qualche modo ti ha fatto cambiare rotta per poi arrivare nella direzione giusta?

PA: Questa è una bellissima domanda e ti voglio rispondere in maniera autentica. Il più grosso problema incontrato (che si è forse sbloccato nell’ultimo anno, anno e mezzo) è il tema relazionale. Pensando di essere nato a Milano e pensando alla scena del design italiano, considera che io arrivavo da un mondo che non c’entrava niente col design, nessuno sapeva chi fossi. [Dicevano] “Ok, ha 100.000 follower su Instagram, ma chi è? Chi conosce? Con chi collabora?” Quindi lo scoglio principale è stato quello all’inizio. Poi iniziando a collaborare con giornalisti conosciuti come Laura Traldi e altri, iniziando a moderare eventi all’ADI Design Museum, iniziando a essere sempre più presente nella scena, si è un po’ sbloccata da sola la cosa. Però se ti dovessi dire qual è stato lo scoglio più grande iniziale è stato questo, perché [nel design] c’è anche un modo di fare che è un po’ conservatore, facciamo le cose perché si sono sempre fatte. Se fossi stato in un mercato anglosassone probabilmente ci sarebbe stata l’attitudine opposta: “Vediamo il nuovo come funziona”. Quindi è stato un po’ lo scoglio principale all’inizio. Oggi fortunatamente è cambiata, anche perché insegno quindi ci sono una serie di elementi che combaciano e che hanno fatto capire al mercato che c’è un’opportunità che effettivamente potevano cogliere, magari prima. 

PF: In Italia funziona sempre questa cosa del “di chi sei figlio”. Che può essere comunque la tua gens, la tua origine, anche professionale, quindi da dove arrivi. Se arrivi da quella parte sì, sei una persona che vale o che può valere. Tu sei arrivato completamente da fuori, posso capire. 

PA: Calato da Instagram!

PF: Esatto. Quindi un doppio sospetto: arriva l’influencer! Però secondo me te la sei tolta bene di dosso questa immagine. 

PA: Grazie. Spero!

PF: Ci sono voluti solo otto anni, dai. 

PA: Poco, poco. 

PF: Sfogliando tra gli argomenti trattati da Design Wanted, proprio sul sito, troviamo gli argomenti classici (interior design, product design) ma anche le nuove forme di design come wearables, NFT, metaverso.

PA: Robe strane… 

PF: Tra tutte le tecnologie che hai visto arrivare in questi anni, dal tuo punto di vista quali sono quelle più utili, quelle più efficaci, quelle più stabili per il mondo del design e quali sono i fuochi di paglia. Ne parlavamo un po’ anche prima, abbiamo parlato di Clubhouse che sembrava il futuro dell’umanità, dopo due mesi è scomparso nel nulla cosmico, o quasi. Tra tutte queste cose che hai visto nascere ed esplodere, quali sono quelle che vale la pena di continuare a osservare?

PA: Quelle che sono esplose come stelle comete sono sicuramente tutti i progetti legati alla blockchain, NFT in particolare, dopo quel boom di richieste, di progetti. Una cosa che cerco sempre di capire sono i fondamentali della nuova tecnologia. Cerco sempre – come diceva un mio amico – di liberarmi dai rumori e concentrarmi sul suono, ed è qualcosa che faccio sistematicamente perché il rischio è di fare veramente grossi investimenti (che sono stati fatti da molti) in nuove tecnologie che potrebbero funzionare più avanti ma oggi non sono mature.

L’altra è il metaverso. C’è stato un periodo in cui tutti quanti parlavano di metaverso, iniziavano a fare qualunque cosa all’interno del metaverso. Dove è finito il metaverso? Quindi da un punto di vista di questa forma di tecnologia e di innovazione la vedo dura, perché c’è sempre il tema di quanto è pronto il mercato ad assorbire. Poi il mercato è fatto di persone. Ti dicevo prima che già oggi il digitale è a buon punto, ma è ancora da esplorare. Parlo del mercato italiano chiaramente. Puoi immaginare quanto sia complicata da capire la blockchain o altro.

Se dovessi essere invece un po’ più pratico, sicuramente [ti direi] la stampa 3D. È partita veloce, poi si è calmata, è rimasta in sordina. Però oggi ci sono sempre più aziende che ne fanno uso anche perché è uno dei principali abilitatori del mondo sostenibile, grazie ai materiali, grazie a una riduzione del magazzino. È uno strumento che si integra con la parte digitale, che può aiutare le aziende a migliorare l’efficienza, a ridurre l’impatto e comunque a sviluppare dei prodotti che hanno delle finiture anche molto buone. Non necessariamente [prodotti] singoli, magari sono dei pezzi, delle componenti, però mi sento di dire che la tecnologia è partita tanti anni fa ormai, ma secondo me è lì per rimanere. Va chiaramente capito come usarla nel mondo dell’arredo in questo caso, perché si parla molto di Made in Italy – come dicevamo prima – quindi c’è anche un tema di semantica, di parole usate in maniera appropriata. Ma credo che sia lì per rimanere, per essere usata bene.

PF: in un’intervista di qualche anno fa hai detto: “Non siamo solo numeri, ma un punto di vista”, parlando proprio di Design Wanted. Come lo esprimi questo punto di vista? Perché mi sembra di capire che tu non ti poni in maniera neutra nei confronti dei clienti, nei confronti del pubblico.

PA: Questa è un’altra bella domanda nel senso che è figlia delle prime esperienze fatte con le varie aziende. [Ci dicevano:] “Siete influencer, siete qua”. Insomma, dovevo far capire che non eravamo solo numeri, non eravamo influencer. Ma intanto il primo modo per esprimere un punto di vista è la selezione, scegliere che cosa pubblicare sul magazine, quindi non necessariamente andando contro qualcosa ma esprimendo il tuo punto di vista con la selezione che fai. Poi man mano, nel corso degli anni, abbiamo sempre più cercato di raccogliere le opinioni di giornalisti noti. Più recente la collaborazione con Laura Traldi che adoro, stimo, è bravissima. Ha sempre la capacità di interpretare una tematica che è apparentemente banale nella forma più intellettualmente stimolante. Anche un [altro] modo di fare selezione e esprimere un punto di vista, secondo me è di sicuro porre domande, non fermarsi a dire “sì”, “no”, “bianco”, “nero”, a giudicare in maniera positiva o negativa qualcosa. Credo che un magazine debba portare il lettore anche a farsi delle domande; quindi, a stimolare un po’ la conversazione, esprimendo il punto di vista che ti dà un fatto e [che] – attraverso le domande – ti incalza verso la soluzione.

PF: Per molti influencer “tradizionali” (uso questo termine in mancanza di termini più precisi), comunque negli influencer puri che restano solo sui social, ovviamente esprimere un punto di vista è una cosa pericolosa perché ti puoi inimicare qualcuno, oppure non ti cercano, non ti fanno regali eccetera eccetera. Mi sembra che non sia mai stato il tuo obiettivo quello di ricevere regali dalle aziende.

PA: Anche se mi arrivano, ma non li voglio, certo.

PF: Tu vuoi che le aziende ti cerchino per pagarti, per lavorare. Quindi è un punto di vista un po’ diverso, non c’è questa voglia di essere in tutto e per tutto neutrali e sospesi dal punto di vista del giudizio

PA: Sì, anche perché il mondo della comunicazione se lo si vuole rendere sostenibile deve per forza collaborare con le aziende. Quando pensi al modello di business (ti snocciolo un paio di nomi più marchettari) hai due modi per sopravvivere. Il primo è che collabori con le aziende e diventi di fatto un magazine vetrina per le aziende. Ce ne sono diversi esempi. Dall’altro è che tu vivi con i lettori, quindi sono i lettori che pagano per leggere i tuoi contenuti selezionati, qualificati, e via dicendo. Non è semplicissimo trovare una formula finale in questo senso. Quello che cerchiamo di fare è di non dipendere eccessivamente dalle aziende ma di farci riconoscere molto dalla community. Design Wanted nasceva per partire dalla community, per costruire un asset di valore per chi si occupava di design. Poi tra questi ci sono anche le aziende. Però il problema credo dell’influencer è quello che si trova in una situazione in cui se vuole comunque rendere sostenibile economicamente, rilevante il proprio progetto deve trovare il modo di raccontare le aziende. Quindi poi quelle che hanno più soldi di solito sono quelle più famose e l’influencer vuole lavorare con quelle, meno con quelle meno note. È un po’ un cane che si morde la coda. Il bilanciamento corretto secondo me sta nella capacità di rappresentare un punto di vista indipendente, trovare delle formule di guadagno veramente diversificate e poi lavorare con le aziende che hanno effettivamente qualcosa da dire. O aiutare gli uffici stampa e le aziende a scavare maggiormente quello che fanno per tirare fuori il valore aggiunto. Perché molte aziende in realtà hanno un sacco di cose da dire, soltanto che sono un po’ ingabbiate – secondo me – in questa necessità di essere l’azienda leader e si dimenticano invece di raccontare il proprio il proprio DNA.

PF: Se tu dovessi suggerirci due o tre account (scegli tu in quale social) di persone o di realtà da seguire a livello internazionale, chi suggeriresti?

PA: Guarda, come ti dicevo prima sto seguendo molto i designer su LinkedIn. Ce n’è uno in particolare: è californiano e si chiama Anson Cheung. È un industrial designer che fa dei post molto interessanti sul design mindset, sull’attitudine dei designer. È quello che dovrebbero esprimere e fare anche a livello di marketing – a me personalmente, per deformazione professionale – anche le aziende. Per i design studio torna molto utile, potrebbe tornare molto utile perché sblocca un po’ questi meccanismi di comunicazione che dovrebbero aiutare chi fa prodotti, o brand, o design studio a esprimersi. Quindi, più che darti degli account di trend e innovazione (perché sono sempre quelli di fatto da seguire) mi stanno incuriosendo molto questi profili professionali sul LinkedIn.

PF: Grazie del consiglio.

PA: Te ne menziono uno. Ce ne sono altri ma ora non mi vengono in mente.

PA: Per chi ci ascolta: metteremo poi nelle note del podcast tutti i suggerimenti di Patrick, anche quelli che magari gli vengono in mente dopo il podcast. Possiamo aggiungerli, abbiamo questa fortuna. Ti ricordi il primo post di Design Wanted?

PA: Mi ricordo sia il post sia dov’ero. Dov’ero non lo posso dire ma il primo post era un’animazione del logo di Batman. Fu una competizione con un mio amico che sta in Messico. Lo postammo tutti e due alla stessa ora, lui sulla sua pagina io sulla mia. Lui ebbe molti più risultati di me in termini di like e share, però fu il primo post. Mi aveva incuriosito e sono partito con quello. Tanto sai che tutti partono al primo passo, quindi era il primo in assoluto. Non lo riposterei oggi. Mi ricordo anche quando ho aperto la pagina, credo che fosse il 27 ottobre 2015, una cosa che mi è rimasta molto nella testa. Anche il nome Design Wanted fu una sorta di eureka.

PF: Hai un portafortuna?

PA: No, stranamente no, ma ho dei rituali. Non ho oggetti che porto con me, che utilizzo come portafortuna, ma ci sono cose che mi rendo conto che a volte faccio in automatico, magari prima di un incontro, quando lancio un nuovo progetto. Rientra un po’ nel rituale sportivo se vuoi, avendo fatto molto sport da giovane.

PF: Non ce ne dici nemmeno uno di questi rituali? Quelli che si possono dire…

PA: Da maniaco ossessivo compulsivo quale sono a volte, sono legati al modo in cui organizzo il computer sulla scrivania, le penne me le sistemo; quindi, è un po’ legato al modo in cui tratto le cose sulla scrivania. O magari cose stupide tipo fai il primo passo destro invece di quello sinistro. Cose un po’ da ragazzetto che ogni tanto ho ancora.

PF: Come chi entra in campo solo con quel piede, deve fare quel gesto lì.  Le critiche più dure da mandare giù?

PA: Anche questa è una domanda bella. In realtà le critiche non mi danno particolarmente fastidio.

PF: Che bella cosa!

PA: Però se dovessi dirti quali sono quelle che mi danno da pensare sono sicuramente quelle che arrivano da persone che non mi conoscono. È capitato spesso all’inizio di Design Wanted di sentire (un po’ come capitò alla Ferragni agli inizi, anche se non sono a quei livelli) di essere massacrato da chiunque a priori. L’idea era sempre quella di dire “Ok, fammi presentare Design Wanted poi mi dici se ti piace no”, ma quantomeno cerca di sapere cosa c’è dietro. Un’altra critica che un po’ mi dà fastidio quando si lavora è legata alla buona fede. Tradotto: mi puoi dire che ho fatto una cazzata gigantesca se magari ho sbagliato il post o l’articolo, se è scritto male, manca un pezzo. Però non puoi dire che è stato fatto per sbadataggine o perché non lavori bene. Questo tipo di critiche non mi fanno impazzire perché so che mettiamo sempre il 110 per cento in quello che facciamo. Ci può stare che facciamo cazzate pazzesche, perché succede. Però queste sono un po’ le due critiche che [non mi piacciono]. Per il resto in realtà credo che ognuno dovrebbe essere impegnato a fare quello che sta facendo per poi stare a guardare e a criticare gli altri.

PF: Nel mondo ideale è così!

PA: Poi magari quelle che non sono costruttive, nel senso che se mi dici che fa cagare un articolo (perdona il termine), quanto meno dimmi perché, aiutami a crescere, aiutami a imparare, perché sennò non serve. In generale, la critica che non dà valore aggiunto lascia il tempo che trova

PF: Se non avessi fatto questo mestiere, riesci a immaginare cosa avresti potuto fare?

PA: Mi viene difficile darti un settore. Sicuramente qualsiasi altro lavoro in cui si ha contatto col pubblico, [in cui] c’è la possibilità di costruire. Tendenzialmente lavori a carattere trasversale tra marketing, commerciale, business developer. Ti dico solo che quando lavoravo a Michael Page ho lasciato l’azienda dicendo che mi sarei aperto una piadineria. Quindi sono veramente aperto a qualunque forma di lavoro in cui riesco ad essere relativamente libero, perché non sono uno di quelli che ama la gerarchia aziendale, mettiamola così.

PF: La piadineria è una versione più contemporanea del chiringuito, in effetti.

PA: Poi adoro la piadina.

PF: Poi la piadina può facilmente portare al franchising, può facilmente portare a un’espansione che son sicuro avevi in testa.

PA: Hai colto qual era il fil rouge nella mia testa. Non era il fine ma era il mezzo.

PF: Patrick, è arrivato il momento della raffica! Ti ricordo le regole: sono dieci domande, mi aspetto solo risposte secche, hai una possibilità di passare e una possibilità di argomentare, per cui hai due jolly che ti puoi giocare.

PA: Va bene 

PF: Lo dico perché ci sta ascoltando: gli ospiti sono sempre all’oscuro delle domande della raffica.

PA: Confermo!

PF: Partiamo subito con una [domanda] bella strong: leadership gentile o leadership decisa?

PA: Gentile.

PF: Instagram o Facebook?

PA: Instagram.

PF: Ebook o libro di carta?

PA: Libro di carta.

PF: Gelato alla panna o cioccolato?

PA: Posso argomentare? Non sono un amante del gelato.

PF: Poca miseria, questa non me l’aspettavo!

PA: Mangio pochi dolci…

PF: Non me l’aspettavo, però la prossima ti troverà a dare una risposta precisa: pizza o pasta?

PA: Pasta.

PF: Casa tua: in un palazzo storico o in una villa contemporanea?

PA: Direi palazzo storico.

PF: I mobili ideali per te: Gio Ponti o Philippe Stark

PA: Gio Ponti

PF: Per imparare cose nuove ti affidi a un podcast o a una newsletter?

PA: Newsletter. In questo caso newsletter. Non posso più argomentare.

PF: Mi è esploso qualcosa dentro!

PA: Ci ho pensato dopo, ma in realtà è stata dura la risposta. Newsletter per un semplice motivo: perché mi rimane in inbox e poi so che ce l’ho lì e me la vado a guardare nel fine settimana. Ma quando riesco podcast, perché è un modo per unire due mondi contemporaneamente. Ma confermo anche podcast, però non potevo più argomentare quindi perdonami.

PF: Va bene, va bene. Te la passo.

PA: È stata dura. 

PF: Ho visto il colore della tua faccia per cui non potevo che darti una seconda chance

PA: Meno male che non lo vedono loro!

PF: In vacanza con gli amici del liceo o con i designer del momento?

PA: Amici del liceo.

PF: L’ultima domanda della raffica: a cena con Kanye West o con Taylor Swift?

PA: Ti direi il primo, Kanye West, perché mi incuriosisce di più. Ho argomentato tre volte perdonami.

PF: Le regole le facciamo noi qua dentro.

PA: Perfetto.

PF: La domanda finale del podcast: consigliaci un libro per te importante.

PA: C’è uno scrittore che si chiama Nassim Taleb, filosofo e scrittore israeliano che ha scritto un libro che si chiama “Antifragile”. Lo trovo un po’ una pietra miliare. Fu quello che scrisse “Il cigno nero” tra l’altro, che anticipò la crisi del 2008. Lo trovo un libro interessante perché spiega molto bene la differenza tra antifragilità – come la chiama lui – e resilienza che è un altro termine che mi fastidisce tantissimo

PF: Benvenuto nel club!

PA: È una parola che mi dà un fastidio incredibile! Nel suo libro si spiega molto bene che cosa significa rialzarsi, quali sono i criteri. Ma soprattutto spiega che le società di oggi, che sono abituate a prevedere a pianificare tutto, si stanno dimenticando che cent’anni fa era tutto da costruire. Quindi l’essere umano in quanto tale non è più in grado di reagire in maniera costruttiva alle situazioni e fatica rialzarsi. Un po’ pesante come libro, ma devo dire che è illuminante

PF: Bene. Grazie del consiglio e grazie a te. Grazie del tempo che ci hai dedicato. So che devi scappare. Ti ho visto arrivare col telefono in mano e adesso so che dovrai scappare al prossimo appuntamento, per cui doppiamente grazie e alla prossima.

PA: Grazie a te Paolo, per l’invito e per questa chiacchierata.

 

 

Puntata registrata in studio a Milano il 25 settembre 2023 e pubblicata il 15 ottobre 2023.

La trascrizione è stata effettuata utilizzando strumenti di intelligenza artificiale e successivamente editata dall’autore.

 

 

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