Cos’è l’estetica del danneggiamento? E il design ammaccato?
Lo scopriamo con Francesco Pavia, creatore di Crash Baggage.
Le sue valigie e i suoi prodotti nascono per togliere i pensieri, per farci concentrare sul viaggio piuttosto che sulla cura del bagaglio. Francesco ci parla di design ma anche del suo rapporto con la Cina, dello spirito veneto che incontra la visione globale e del ruolo fondamentale della fiducia negli affari. Buon ascolto!
I link dell’episodio
– Il sito di Crash Baggage https://crashbaggage.com
– Il sito di Lunar https://lunarwheel.it
– il libro “Sapiens. Da animali a dei” di Yuval Noah Harari https://www.bompiani.it/catalogo/sapiens-da-animali-a-dei-9788845296499
Sono Paolo Ferrarini e questo è Parola Progetto
Parola Progetto è un podcast di dialoghi con persone che vivono di progetti, dove si racconta il design in tutte le sue forme, senza oggetti e immagini, solo attraverso la parola.
Ed eccoci qua.
Oggi siamo a Venezia con Francesco Pavia, fondatore di Crash Baggage.
Almeno una volta nella vita è capitato a chiunque di scoprire che la propria valigia rigida era stata ammaccata, con relative arrabbiature, file ai reclami, attese di giorni per rimborsi o sostituzioni. L’idea di Francesco parte proprio da questo: creare una valigia già ammaccata, così passa la paura. Da questa intuizione è poi riuscito a creare un prodotto, che è diventato un marchio, che è diventato un’azienda, che oggi si avvia a diventare un hub creativo e di innovazione. Tutto accomunato dallo slogan “handle without care”.
Ciao Francesco, benvenuto a Parola Progetto.
FP: Ciao Paolo, ciao a tutti e ciao mamma.
PF: Salutiamo anche la mamma e tutte le mamme! Allora, iniziamo dall’inizio. Tutto è cominciato con i viaggi in Cina con tuo padre. Questa tua passione per la valigia e per il viaggio viene da lontano, ed è una cosa, mi viene da dire quasi, di DNA. Raccontaci per bene come è andata.
FP: Sì, tutto è iniziato alle scuole superiori, quando iniziavo a sentire il bisogno di fare qualcosa di importante, oltre a provare a istruirmi a studiare. Mio padre aveva intuito questa mia diversità. Anche durante le scuole superiori, non avendole ancora finite, ha deciso di portarmi con sé in viaggio in Cina. Lui è milanese, era venuto a lavorare in Veneto per un’azienda nota di valigeria. Quindi quando avevo 17 anni (quindi ero ancora nel suo passaporto, non avevo ancora il mio passaporto) sono andato con lui. E diciamo che mi ha lasciato là, diciamola così. Per cui ho incominciato a andare subito a contatto con il mondo produttivo e soprattutto a andare a vedere che cos’era la valigeria, come nasce il prodotto, perché esiste il prodotto. E per me è stato un po’ uno shock all’inizio, perché io ero molto carico, molto creativo, con tanto da esprimere. Però arrivare in quel mondo mi ha un po’ bloccato, perché quel mondo era molto statico.
PF: Come ti è arrivata l’idea – attorno al 2010, se non sbaglio – di creare un qualcosa di totalmente tuo? Con questa sorta di illuminazione, quella di togliere il pensiero di rovinare la valigia, quindi viaggiando con una valigia già rovinata, già ammaccata. Ecco, sono curioso di sapere quali sono state le prime reazioni alla tua idea quando hai iniziato a raccontarla in giro.
FP: Le prime reazioni sono successe dopo aver fatto il primo prototipo, perché il primo prototipo ha scatenato tutto quanto. L’idea è stata frutto di questa incongruenza mentale [tra quello] che trovavo in quel mondo e quello che avevo in testa io, cioè di dire qualcosa, di raccontare qualcosa, di esprimere qualcosa di più emotivo, cosa che magari io. Ero molto emotivo e quindi era forse quello lo scontro che mi ha fatto pensare. Ed è stata soprattutto un’analisi logica, quella che mi ha fatto ragionare, mi ha fatto capire quanto ci sia di emotività tra una persona e il bagaglio, la valigia. Questo è stato il fattore scatenante che mi ha fatto analizzare le situazioni, mi ha fatto capire che la valigia alla fine rimane un contenitore che è anche la tua casa. Serve per spostarti, per riempirla dei tuoi fatti personali. Le persone hanno un certo tipo di amore e odio verso quel prodotto, nel senso che quando viaggi sei innamorato della tua valigia, però quando torni a casa incominci ad odiarla.
Il secondo pensiero è stato quello nel capire che la valigia non è un accessorio che indossi, non è una scarpa, non è una borsa, ma è un oggetto che vive anche ora, oggi, “di ruote proprie” e quindi è indipendente. Questo crea un altro fattore interessante. Non è sempre con te, non la puoi controllare, spesso e volentieri, oggi. Se vuoi viaggiare, una valigia la devi imbarcare, la devi lasciare in mano alle compagnie aeree. [Le valigie], passano tante mani, passano tante macchine, ci sono i tempi stretti, e quindi succede sempre qualcosa. E di solito cosa succede? Che quando arrivi e la ritrovi, qualcosa è successo anche sulla valigia. E tante volte esce la rabbia della persona, si è arrabbiato perché il prodotto è stato rovinato, è stato trattato male, magari l’aveva appena comprato.
Quindi, come risolvere tutte queste situazioni? E da lì c’è stata l’intuizione di dire: “Se io faccio una [valigia] già ammaccata, abbiamo risolto tutti i problemi. Le persone sono già preparate a ricevere i danneggiamenti e allo stesso tempo le botte donano un certo tipo di estetica e di emotività a un prodotto che non ce l’aveva”. Mi sono trovato a cercare di fare un primo prototipo. Con un semplice phon da carrozziere ho cominciato a scaldare la plastica e cercare di ricreare le botte in maniera più naturale possibile. [L’ho fatto] partendo dagli angoli, cercando di diversificarli l’uno con l’altro, di dar loro delle grandezze diverse, cercando di dare un’armonia a queste botte, passando per la parte frontale, per il retro.
Una volta finita era come se avesse cominciato a parlare da sola questa valigia. Aveva cominciato a esprimersi, aveva preso vita. Quello per me è stato un momento che mi ha fatto capire che quell’idea e quel prodotto avrebbero avuto un grandissimo potenziale.
PF: Quindi il tuo è stato proprio un vero e proprio atto di design. Ti sei messo in un certo qual modo a fare design. Infatti la valigia è a firma tua, il Crash Baggage è a firma tua, giusto?
FP: Sì, inconsciamente. È stato veramente un processo inconscio, però credo che sia stato il processo più naturale che possa esserci.
PF: Tu non hai una formazione da designer, giusto?
FP: Io non ho studiato design. Dopo le superiori sono andato direttamente a cercare di lavorare. Ho cominciato a fare valigie per gli altri perché avevo imparato a gestire i fornitori, a gestire le fabbriche, a conoscere le differenze, quindi ho incominciato a fare il searching per altre aziende che volevano sviluppare le proprie valigie. Però io volevo essere indipendente, non volevo lavorare per qualcun altro.
PF: Vediamo tantissime forme di design, più o meno teorico. Tu attraverso un oggetto sei arrivato a definire quello che chiami il “design ammaccato”, come se fosse quasi una nuova disciplina, una nuova forma di design. In più aggiungi anche (questo si trova molto spesso nei documenti che raccontano la vostra azienda) di “estetica del danneggiamento”. So che avete sperimentato anche con altri oggetti, ad esempio le borracce, ma dove si potrebbe arrivare, a cosa potrebbe portare?
FP: Io credo che la risposta corretta è “tutto”, purché abbia senso per quello che è. Io credo che l’estetica del danneggiamento, il design delle botte, sia un concetto che parte dalla valigia come sua massima interpretazione, ma che può declinarsi all’infinito, purché abbia senso. E questo lo deve decidere qualcuno.
PF: E sei tu o è il mercato? Sono le persone alle quali ti rivolgi?
FP: La vera guerra starà nel farlo decidere alle persone e alle persone che lavorano insieme a me.
PF: Mi sembra già di capire – a questo punto diventa sempre più chiaro – che la valigia sia una scusa, un mezzo per fare altro. Ancora, nel vostro profilo aziendale scrivete questa cosa bellissima: “Crediamo nel viaggio come momento di ricerca del piacere e rottura della quotidianità, da vivere in totale libertà”. Quando l’ho letto ho detto: “Questa è una frase da agenzia di viaggi, non è una frase da produttore di valigie”. Leggo bene?
FP: Leggi bene, nel senso che il credo del progetto, del brand, dell’azienda è proprio quello di cercare di stare bene, di lavorare, di divertirsi e di sposare il progetto a trecentosessanta gradi. I soldi, l’azienda ci sono, esistono, però esiste anche una grande fetta che – come dicevo prima – sono le persone. Credo che il lavoro sia l’unione tra far stare bene le persone e di conseguenza costruire il lavoro.
Di solito il denaro traina sempre un po’ tutto. Mi piacerebbe che questo progetto (essendo ampio, essendo aperto a mille orizzonti) possa anche integrarsi con le persone con cui si lavora, internamente o esternamente, dando un senso di serenità a trecentosessanta gradi e non solo dovuto alle 8 ore di lavoro.
PF: La produzione di Brash Baggage avviene in Cina. La qualità è comunque altissima. Non è una scorciatoia (quella della produzione cinese) per avere un prodotto di bassa qualità a un prezzo alto di retail. Rivendicate però l’italianità del design. Nel prodotto ci sono tante bandierine tricolore, c’è scritto che è “designed in Italy” che mi ha fatto venire in mente il “designed in California” di Apple, ovviamente. So che passi tanto tempo, in Cina (infatti parti tra pochi giorni) e che avete anche una sede in loco. Raccontaci un po’ come gestisci la produzione e il rapporto tra Cina e Italia.
FP: Se tutto è nato dalla produzione in Cina del prodotto, presto siamo arrivati anche alla commercializzazione nella stessa Cina ed è stata una grande vittoria per me perché, oltre a produrre nello stesso paese, siamo riusciti a conquistare il mercato di vendita con l’idea, con l’emotività. Hanno tanto bisogno di emotività. Io mi ricordo che nelle fiere avevamo questi muri di valigie ammaccate. Quando passava un signore, magari cinese, all’inizio non capiva, poi quando capiva rideva. E quindi questo vuol dire aver fatto passare un messaggio senza aver spiegato niente, come ho detto prima. È stata una grande vittoria arrivare anche a vendere il prodotto in Cina.
Con la stessa selezione che c’è stata fino ad adesso con i clienti, c’è stata questa attenzione. In più, la mia esperienza culturale locale mi ha permesso di andare oltre e di credere in persone che mi capivano. Quindi ho scelto di lavorare solo con chi mi capiva. Questo mi ha portato oggi a unirmi con queste persone, con le stesse persone con cui abbiamo venduto il prodotto, che ci hanno venduto il prodotto. Ho deciso di unirmi e con questa società [vogliamo arrivare] a gestire anche la produzione in maniera più vicina. Fino ad oggi è stata mia responsabilità. Sono stati i miei rapporti di fiducia costruiti nel tempo, il rispetto che ho avuto e che ho creato nei confronti del brand (anche attraverso la commercializzazione) che hanno aiutato a creare questo trust. E tramite la fiducia e la mia persona ho gestito le produzioni personalmente, tuttora oggi.
Domani mi piacerebbe (grazie a questa collaborazione non più con clienti ma oggi con dei soci, che sono dei ragazzi che più o meno hanno la mia età, quindi c’è molta comprensione) crescere da entrambe le parti in maniera diversa. In primis per loro la produzione sarà organizzata bene, gestita bene, gestita da vicino. Mi piacerebbe istruire i miei clienti – con cui assieme abbiamo fatto una società – per andare a gestire insieme, in locale, la produzione che poi andrà per il mondo.
La produzione non è una cosa facile, è una cosa estremamente difficile da seguire, da gestire. Come ho detto prima, la lontananza e gli orari non aiutano e quindi l’idea è stata proprio quella di [dire]: “Perché no? Uniamo il commerciale alla produzione, ma tutti poi lavoriamo per lo stesso ideale”. Perché sono i miei clienti sono i primi ad avere bisogno di un buon prodotto. Quindi se insieme riusciamo ad aiutarci, credo che sia una strategia corretta.
PF: Mi viene in mente una cosa che mi hanno insegnato delle persone più grandi di me, che un po’ mi hanno fatto capire come funziona il mondo, non solo degli affari, ma il mondo in generale. Dicevano che uno sguardo e una stretta di mano valgono più di cento pagine di contratto. Mi sembra che da questo discorso traspaia un po’ anche questa convinzione profonda che, posso dire, è molto “agricola”. È molto da cultura di provincia, dove sono nato anch’io. È un tipo di modello che sembrava superato e invece è organico.
FP: È naturale.
PF: Sembrava superato e invece sembra essere la forma più efficace di business che ci possa essere oggi.
FP: Io mi sono sempre ispirato alla naturalità, alla natura. Se costruisci un marciapiede ma la pianta deve venire su con le radici, il marciapiede si rompe. Quindi credo molto nei tempi della natura e che le cose hanno bisogno del proprio tempo. Mi piace dirlo oggi che l’azienda ha dieci anni. Magari si sta mettendo adesso in cerca di crescere adeguatamente a quello che stiamo facendo. Faccio sempre questo paragone: per fare il whisky buono devi aspettare dieci anni, almeno. Seguendo queste logiche credo che ci sia coerenza anche in questo. Il tempo è importante e la natura è il più grande esempio che abbiamo di fronte agli occhi ogni secondo.
PF: Secondo te oggi ha più senso avere un’azienda grande o tante aziende piccole? Immagini in futuro un Crash Baggage che diventa un’azienda cappello, che fa tanti prodotti, o pensi che potresti avviare tante altre aziende che prendono dagli errori e dai successi di questo tuo primo lavoro?
FP: Credo che mi piacerebbe concentrarmi su un’azienda e dare un senso alla diversificazione, ma rimanendo all’interno dello stesso contenitore. Magari sotto a una diversificazione culturale, perché noi vendiamo un po’ in tutto il mondo e ho capito che questo punto è un punto fondamentale e imprescindibile. Ho capito anche che nel mondo ci sono orari diversi!
La cosa bella e divertente sarebbe trovare chi fa e chi crede in quello che stai facendo in giro per il mondo, con il proprio orario, costruendo un certo tipo di fiducia che ho imparato dalla mia esperienza cinese, perché infine il business si basa tantissimo sulla fiducia. Quindi credo che se si lavora bene sulla fiducia le carte servono, ma non servono a costruire il progetto.
Il progetto può essere mondiale, ma semplicemente perché una valigia ammaccata si ammacca in America e si ammacca anche in Giappone. Magari in Giappone un po’ meno perché sono un po’ più attenti. Mi piace molto l’idea di cercare di sviluppare un progetto mondiale che abbia – grazie all’estetica del danneggiamento – un infinito programma di prodotti, di servizi e che abbia come slogan la vita, essenzialmente.
La vita è la cosa più importante del mondo e forse oggi in parte ce lo stiamo dimenticando. Ma l’idea è di promuovere la vita attraverso l’esempio di una valigia già ammaccata, che cerca di dirti di non preoccuparti, di goderti la vita. O che rappresenta le botte che hai subito dalla vita che ti hanno permesso di andare avanti. Credo che non ci sia nessun messaggio migliore e più infinito di questo.
PF: Ti devo dire anche un’altra cosa da utente di Crash Baggage. È bellissimo quando vedi qualcun altro che ce l’ha. Mi è capitato in aeroporto, ad esempio. Ho incontrato un’altra ragazza con un modello diverso dal mio; lei stava andando con la sua valigia io andavo con la mia valigia, ci siamo incrociati e ci siamo sorrisi. Era una ragazza probabilmente cinese, era estremo orientale, e ci siamo guardati, ci siamo sorrisi, è stato come se si fosse formata una community. Ci siamo riconosciuti, ci siamo guardati negli occhi e ti assicuro: questo era un effetto che non avrei mai potuto prevedere quando per la prima volta sono uscito di casa con una Crash Baggage.
FP: Questo è bellissimo. Io credo che sia bellissimo e [che] sia anche il frutto del nostro lavoro, perché oggi l’azienda quest’anno compie dieci anni. In questi dieci anni abbiamo sempre lavorato cercando di dare un senso alla community dei nostri utilizzatori. Abbiamo sempre cercato di evitare di espanderci troppo e abbiamo detto tanti no, nonostante ne avessimo bisogno. Però questo sta costruendo una community che si capisce, come se [i membri] fossero già amici o potessero esserlo. Questo per me è bellissimo e credo che [potrebbe crescere] se si lavorasse ancora ottimizzando alcune cose, migliorando, ampliando. Perché chiaramente la voglia di crescere c’è! Non è che non c’è.
PF: Ovvio.
FP: Però l’idea [è] che le persone (come hai detto te) anche se non si conoscono, abbiano un senso di amicizia dovuto alla scelta di aver comprato un prodotto: è qualcosa di speciale.
PF: Parliamo di retail. A proposito di dimensione internazionale, Crash Baggage innanzitutto non si trova in valigeria ma da (faccio un elenco dei punti vendita principali) La Rinascente, Selfridges a Londra, Merci a Parigi, Luisa via Roma a Firenze, 10 Corso Como e a Shanghai, giusto per citare alcuni, ma ce ne sono molti altri. Ovviamente c’è l’online. Da subito hai puntato a una distribuzione che andasse in direzione di moda e lifestyle, non semplicemente di viaggio, quindi di persone che hanno un’attitudine mentale molto aperta al viaggio, ma che non vanno alla ricerca di un prodotto specifico per il viaggio. A me questa strategia ha ricordato moltissimo Dyson. Io ricordo la prima volta in cui ho visto un aspiratore Dyson dal vivo: era da 10 Corso Como a Milano. Non da Euronics, non in un negozio di elettronica o elettrodomestici, dove sarebbe dovuto essere. E me l’ha reso subito particolarmente simpatico. Ovviamente stiamo parlando di un prodotto che non è solo un aspirapolvere. Quali sono gli altri tuoi punti di riferimento per le strategie di retail, se ne hai?
FP: Ecco, questo è stato proprio il secondo punto della storia dell’azienda. Una volta sviluppato il prodotto (ero con mio padre, lui mi ha dato una mano all’inizio per impostare l’azienda) lui più di me dice: “Ma dove lo vendiamo questo prodotto adesso?”. Lui chiaramente conosceva il mondo della valigeria, quindi quello che lui poteva offrire era una rete vendita di valigeria. Io mi sono imposto fin da subito: “No, noi abbiamo altro da raccontare e quindi non dobbiamo stare lì”. Quindi ci siamo guardati e abbiamo detto: “Secondo me, se noi riuscissimo a entrare nelle più belle vetrine dei negozi di abbigliamento di moda possiamo diventare conosciuti attraverso quel settore ed è un settore che avrebbe tutto il diritto di vendere delle valigie ai propri clienti. È una nuova opportunità”. Noi ci abbiamo provato e l’azienda è nata grazie anche a questa intuizione commerciale. Poi è stato difficile dare continuità perché la moda lavora con le stagioni. Cercare di mettere d’accordo un prodotto continuativo e le metodologie della moda non è stato facile. In un secondo momento ci siamo mossi [per] cercare di diventare più autonomi possibile. Oggi posso dire che Crash, come valigia, è stato un progetto pioniere di questo cambiamento del mondo della valigeria, [di un cambiamento] di acquisto che passa dal bisogno al desiderio.
La più grande fortuna delle nostre idee è che il prodotto era il marketing stesso. Perché – come ho detto prima – il prodotto parlava e solamente mettendolo in mostra faceva quello che doveva fare. Questo ci ha dato una grossa mano all’inizio e può dare una grossa mano al futuro. Oggi io credo che ci sia[no] da bilanciare le due cose. Oggi stanno nascendo tante aziende digitali, però hanno bisogno di andare sulla strada. A me piacerebbe fare tutte e tre le cose: mi piacerebbe stare nel mondo digitale, raggiungere tutti i nostri clienti direttamente e parlarci direttamente; mi piacerebbe avere spazi nostri con cui fare qualcosa con i nostri clienti; in più mi piacerebbe collaborare con altre persone per raccontare quello che facciamo. Credo che ci sia bisogno dell’unione delle tre cose e mi piace molto pensare che chi non le sta facendo tutte e tre, si sta perdendo dei pezzi. Comunque noi stiamo lavorando di continuo con il futuro. Questo dà sempre un segnale ai nostri clienti, secondo me: affacciarsi al futuro con serenità.
PF: A proposito di futuro, recentemente siete andati sulla Luna. Anche questa è una bella storia di collaborazione. Il vostro ultimo progetto in ordine di tempo è proprio Lunar. Si tratta di una ruota (qua potremo partire con tutte le metafore legate al reinventare la ruota, ma non partiremo. Lunar che cos’è? È una ruota per valigie dotata di una camera d’aria, quindi praticamente un mini pneumatico. Oltre all’ammortizzazione il grande vantaggio è la silenziosità. Posso dirlo di persona perché mi avete regalato due Crash dotate di Lunar e le sto sperimentando da un po’ di giorni, da un po’ di settimane. Le ho sperimentate a Roma, a Mantova, a Como, a Bologna, a Milano, per cui in un paio di settimane riesco a viaggiare un bel po’. Diciamo [che] ho fatto dei bei test. Devo dire: in stazione va che è uno spettacolo, sembra che voli, silenziosissima, perfetta. Sul pavé, sull’acciottolato (ho fatto un elenco di città storiche italiane dove di pavé e acciottolato ce n’è tanto) è davvero molto molto silenziosa. Ovviamente si sente, non è proprio a zero decibel, ma rispetto al rumore plasticoso, acuto di una classica valigia rigida, siamo anni luce avanti. Ti devo dire non ho provato quell’imbarazzo che a volte provo magari arrivando tardi sotto casa, con la valigia che fa un rumore allucinante. Ecco, mi è passata questa sensazione di colpa: “Oddio, disturbo la quiete pubblica, oppure sveglierò qualcuno”. Un’altra cosa meravigliosa di queste ruote: quando esci alla mattina presto e in casa non vuoi svegliare nessuno, è uno spettacolo, non è più necessario sollevare il trolley, ma lo accompagni piano piano verso la porta, è silenziosissimo. Quindi questa è la mia esperienza di Lunar finora, di queste ultime settimane. Raccontaci la storia di Lunar. Come siete arrivati a questa rotellina?
FP: A me piacciono le scommesse. Ho avuto la fortuna di aver fatto esperienza nel mondo della valigeria, di avere visto [la valigia] orizzontale diventare verticale, cominciare a usare delle ruote. Oggi il mercato della valigeria si sta evolvendo, come ho detto prima, e anche l’evoluzione tecnologica sta evolvendo. Ho avuto la possibilità di venire a conoscenza di un’idea, di un brevetto che stava già cercando di prendere vita, ma non aveva trovato spazio e ho deciso di credere in questa idea. L’idea di avere in mano un’evoluzione tecnologica – oltre a quella estetica e filosofica – mi piaceva, mi dava completezza su quello che stavo facendo anche a livello tecnico, pratico. Quindi abbiamo deciso di prendere in mano questa idea, di continuare a svilupparla, di portarla all’industrializzazione, fino alla commercializzazione. È stata l’idea di creare uno pneumatico che ha una camera d’aria naturale, che permette di ammortizzare per l’insieme dei [suoi] materiali, della gomma, [per] creare una morbidezza, una rotondità che nell’uso crea un effetto morbido, di comfort. Oltre al silenzio, da un mio punto di vista, [crea] comfort, promuove proprio il comfort italiano. Infatti il prodotto è un progetto Made in Italy ed è sviluppato qua in Veneto. Anche noi siamo in Veneto e abbiamo deciso di lanciarlo a Venezia, perché quale città più di Venezia può rappresentare questo problema? Quest’anno abbiamo fatto una collezione speciale di valigie che ha questi colori un po’ spaziali e abbiamo montato per la prima volta le ruote Lunar. L’abbiamo presentata alla Biennale di architettura di quest’anno attraverso un’installazione.
PF: Aggiungo una cosa: sono anche molto più belle delle ruote normali perché hanno questa dimensione quasi “fumettosa”, sono proprio disegnate da Dio. Oltre ad avere ovviamente il valore dell’innovazione, della silenziosità, sono proprio belle
FP: Hanno un valore estetico, concordo con ta. Abbiamo lavorato anche su quello per cercare di dare un’estetica coerente con quello che dovrebbe essere un design Made in Italy, un design italiano, quindi che abbia una sua rotondità. Noi facciamo le curve e quindi dobbiamo continuare a fare le curve perché se cominciamo a fare le strade dritte allora vuol dire che è la fine! L’equilibrio tra il design e la funzione tecnica ci ha permesso di raggiungere un obiettivo che è ancora in sviluppo, nel senso che noi abbiamo avuto il coraggio di uscire con un progetto che si sta continuando a industrializzare. Abbiamo deciso di uscire solo con una misura (la misura bagaglio a mano) e stiamo lavorando sulle altre misure. Quindi stiamo industrializzando, commercializzando e comunicando allo stesso tempo. Questo credo sia coraggioso, non solo perché vuol dire cercare di stare nei tempi del mercato, [ma anche] perché c’è un’innovazione tecnologica in corso negli accessori e io volevo, in una piccola parte, farne parte. Non so se sarà l’innovazione che stravolgerà tutte le ruote di tutte le valigie del mondo, ma sono convinto che può trovare una sua fetta in questa nuova ricerca.
PF: E poi ricordiamoci che potrà avere tante altre applicazioni oltre alla valigeria, perché esistono tante cose nel mondo che viaggiano su piccole ruote. Avete già iniziato a sperimentare altre forme di applicazione?
FP: Ci sono stati alcuni temi vari, interessanti, partendo dall’ospedale (cioè dal rumore dei lettini di ospedale o dei problemi che hanno i deambulatori perché col peso non riescono a girare bene), passando per i monopatini elettrici delle città. Questo è anche un brevetto. È una ruota che è studiata [in modo che] se fora mantiene la sua struttura, fa passare l’aria, entra e esce, mantiene la sua struttura, continua ad ammortizzare, continua a fare il suo lavoro, quindi va avanti. Questa è una sua qualità. Non danneggia il suolo, quindi [va incontro] anche ai temi di danneggiamento in certi luoghi. È motivo di idee di prodotti [come] i passeggini.
Facevamo il Pitti a Firenze e dormivamo in città. La mattina ci sono i carretti del mercato che tirano dentro e fuori tutto quanto. Domani potranno montare una tecnologia nuova che aiuta a non danneggiare una città e che elimina un grosso problema di inquinamento acustico. Sono esempi con cui, secondo me, si può ingrandire e diversificare molto, partendo dalla famosa valigia.
PF: È arrivato il momento della raffica. Ti ricordo le regole: dieci domande, solo risposte secche, hai una possibilità di passare, una possibilità di argomentare. Ok?
FP: Ok.
PF: Per chi ci ascolta da casa, gli ospiti sono sempre all’oscuro delle domande della raffica, per cui c’è questo elemento di sorpresa che magari non tutti amano, ma è la parte più divertente. Non sono domande cattive, ovviamente, almeno non tantissimo.
Allora, prima domanda: se non esistessero le valigie, zaino o borsa?
FP: Borsa.
PF: Ottimismo o realismo?
FP: Ottimismo.
PF: Agenda cartacea o calendario digitale?
FP: Agenda cartacea.
PF: Treno o aereo?
FP: Treno.
PF: Fine settimana di relax: da solo o in compagnia?
FP: Da solo.
PF: Qui non devi argomentare, non c’è bisogno di argomentare? Da solo…
Per vestirsi, abito su misura o vintage?
FP: Su misura e argomento.
PF: Vai!
FP: Allora, io sono sicuramente un fan del vintage, partendo dall’armadio di casa, che è stato sicuramente lo stilista migliore che io abbia mai avuto. Devo dire che oggi, che sono un po’ più grande, incomincio a ritrovare e a riscoprire il piacere di avere degli abiti adatti al mio corpo e non standardizzati a delle taglie. Quindi sono per il su misura a gran voce adesso.
PF: Che bello. Bene. In viaggio, cosa mangi? Pasta o noodles?
FP: Noodles.
PF: In città, infradito o sneaker?
FP: Infradito.
PF: Design classico o design contemporaneo?
FP: Classico.
PF: L’ultima domanda della Raffica. Negroni o spritz?
FP: Passo.
PF: Te la sei giocata bene, bravo! Ti sei giocato bene i jolly. Non abbiano neanche dovuto infrangere le regole. Con qualche ospite, qualche eccezione alla regola l’abbiamo dovuta fare. Allora Francesco: la domanda finale del podcast. Consigliaci un libro per te importante.
FP: In parte mi prendi un po’ impreparato, nel senso che non mi reputo e non sono un gran lettore, però ho avuto modo di provare a leggere alcuni [libri], di non finirne altri.
PF: Giustamente.
FP: E devo dire che una storia mi ha portato a conoscere un libro, una casualità. Una volta ero in aereo e [con] il mio vicino di sedile abbiamo cominciato a chiacchierare. Stavamo tornando dall’Oriente, tutti e due per lavoro. E piano piano, raccontandosi, una parola dopo l’altra, la sintonia cresceva. Lui era più grande di me e a un certo punto aveva capito tutto di me. E io avevo capito tutto di lui come se fosse me più grande.
PF: Ma vedi.
FP: E mi ha fatto anche lui questa domanda, mi ha chiesto che libri leggo e gli ho detto che non sono… gli avevo detto che non ero un gran lettore. E lui mi fa: “Lo so, però ti consiglio di leggere questo libro”. Quindi quella volta mi ha consigliato un libro. Sono tornato a casa che avevo questo tarlo, questa fissa. È stato divertente perché poi sono andato in cerca di questo libro. Non essendo un gran lettore sono andato in cerca dei negozi di libri, magari di quello che poteva avere questo libro. Sono andato dal commesso, ho chiesto questo libro. Questo commesso mi ha detto: “È un libro di un certo tipo”. Mi ha preso per un esperto, un gran lettore e questo mi ha divertito. Il libro in questione era “Sapiens. Da animali a dèi” di Harari.
Devo dire che questo libro – che posso ammettere di non aver finito, ma ho iniziato a leggere – mi ha dato un senso, mi ha dato un aiuto nel capire perché siamo bianchi, perché siamo neri, perché abbiamo gli occhi grandi, perché abbiamo gli occhi stretti. Mi ha messo in fila un sacco di [cose], mi ha fatto capire chi siamo, perché siamo così e mi ha aiutato molto a capire poi cosa vuol dire tutto il resto. Perché è spiegato tutto in maniera molto semplice e molto pratica.
Quindi se dovessi consigliare un libro a qualcuno, adesso consiglierei quello perché credo aiuti a tutto, farsi un esame [di coscienza] di chi siamo e perché siamo fatti così o colà.
PF: Bene, grazie Francesco.
FP: Grazie Paolo. È stato un piacere, è stato molto divertente e ti aspetto in Veneto per nuove avventure.
PF: Esatto, molto volentieri!
Puntata registrata presso la sede di Crash Baggage a Mira (Venezia) il 20 settembre 2023 e pubblicata il 15 novembre 2023.
La trascrizione è stata effettuata utilizzando strumenti di intelligenza artificiale e successivamente editata dall’autore.
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