Parola Progetto About
STAGIONE 6 — EP. 4

Francesco Franchi: il design delle notizie

12/2023 — 32:57

Nell’ultima puntata di Parola Progetto si parla di grafica e news con Francesco Franchi, caporedattore de La Repubblica.

Inizia la sua carriera da Leftloft, ma presto intraprende un originale percorso di designer all’opera nelle redazioni dei quotidiani, prima al Sole 24 Ore poi a La Repubblica.

Nell’episodio ci racconta la sua esperienza di successi e cambi di rotta tra infografica e racconto, giornalismo e immagini, passando per illustrazione e fotografia.

 

I link dell’episodio:

– Il sito di Francesco http://www.francescofranchi.com

– Leftloft, dove ha preso il via la sua carriera https://www.leftloft.com

– Il sito di Repubblica https://www.repubblica.it

– La mostra “Memory Palace” al V&A di Londra http://www.vam.ac.uk/content/exhibitions/exhibition-sky-arts-ignition-memory-palace/

– Semafor Magazine https://www.semafor.com

– Il libro suggerito da Francesco, “Il professionista riflessivo” di Donald Alan Schön https://bit.ly/3RJjQAG

PF: Sono Paolo Ferrarini e questo è Parola Progetto. Parola Progetto è un podcast di dialoghi con persone che vivono di progetti dove si racconta il design in tutte le sue forme, senza oggetti e immagini, solo attraverso la parola. 

Ed eccoci qua. Oggi siamo a Milano con Francesco Franchi, designer grafico e caporedattore de La Repubblica. Francesco si laurea al Politecnico di Milano con una tesi sul giornalismo grafico nei quotidiani, un progetto accademico che negli anni si è trasformato in professione vera e propria. Ha mosso i primi passi professionali presso Leftloft, negli anni in cui anche in Italia si iniziava a diffondere l’infografica.

Nel 2008 entra al sole 24 ore come direttore creativo di “IL Intelligent Lifestyle Magazine“ che ha vinto moltissimi premi internazionali per il suo design innovativo. Dal 2016 fa parte della redazione di La Repubblica, quotidiano che ha ridisegnato ben due volte in tre anni. È membro di AGI e autore di libri tra cui “Designing News“ e “The Intelligent Lifestyle Magazine“.

Ciao Francesco, benvenuto a Parola Progetto. 

FF: Ciao, grazie. 

PF: Noi ci conosciamo da qualche anno. La prima volta in cui ci siamo incontrati ti intervistavo per Eye Magazine, una delle prime interviste che facevo per loro. Ero convinto che avrei parlato con un autore di bellissimi lavori di grafica e infografica, poi ci siamo seduti – eravamo, mi ricordo, al tavolino di un bar -mi allunghi il biglietto da visita e resto sorpreso quando scopro che dice “giornalista“. Dico: “Ma come mai sta cosa qua?“. Poi inizio a unire i puntini. In realtà ho capito che il design può essere legato a doppio filo al giornalismo. Pensavo che il giornalismo fosse solo una cosa di ricerca e di parole, in realtà no. Soprattutto quando si parla di ricerca, quando si parla di necessità di essere in sintonia con il design, allora lì si, ci vedo anche il design. Perché non avevo visto prima questo legame tra design e giornalismo? E tu come l’hai messo in pratica nella tua professione?

FF: Beh è un legame che c’è sempre stato, perché quando lavori e cerchi di dar forma a un contenuto, alla fine fai comunque un lavoro giornalistico, anche quando lavori sulle immagini. Nel mio caso, diciamo, la fortuna che ho avuto (forse all’interno della prima esperienza, un po’ già da Leftloft, ma soprattutto credo all’interno della prima esperienza al Sole 24 Ore) è stata quella di trovare uno spazio in cui poter raccontare delle storie senza usare il testo scritto, ma soprattutto usando delle immagini, partendo da dati, introducendo il linguaggio dell’illustrazione, lavorando, selezionando questi dati. L’idea era quella di raccontare delle storie di lifestyle. Erano i primi tempi della crisi economica del 2008, per esempio, o dell’avvento dell’alta velocità, del treno ad alta velocità in Italia. Quindi si cercava di raccontare queste cose solo utilizzando dati, illustrazioni, immagini, quindi in una maniera non lineare. Era una sorta di rubrica all’interno delle pagine. Quindi qui è un po’ iniziata la mia esperienza all’interno del mondo dei giornali.

PF: L’infografica, spiegata mia nonna: dicci che cos’è l’infografica, proprio con una definizione la più semplice possibile?

FF: Lo dice un po’ anche la parola stessa: è dare delle informazioni attraverso l’utilizzo della grafica. Quindi vuol dire lavorare con illustrazioni, disegni, schemi, mappe, dati, rielaborare questi dati e trasformarli in sorta di grafici che vanno dai grafici d’andamento, le cosiddette torte o grafici a barre. Quindi è un po’ quello che abbiamo cercato di fare, di mettere insieme tutti questi elementi per cercare di lavorare delle pagine che non fossero solo di lettura, ma che fossero a più livelli di informazione.

FF: Come si progetta un’infografica, mi chiedo? Si parte dai dati, questo lo abbiamo visto, si parte da un set di informazioni. Ma per quello che riguarda lo stile, mi viene da dire, per quello che riguarda poi l’immagine, sono i dati stessi a suggerire l’output finale o ci si incontra a metà strada con le idee del designer?

FF: Dipende un po’ da dove stai lavorando. Ti muovi all’interno di uno spettro, quindi magari da un lato c’è un aspetto più estetico e dall’altro c’è un aspetto più freddo, legato ai dati. Quindi se magari stai lavorando su un annual report, ti spingi più verso il lato freddo dei dati. Se stai lavorando su una pagina di un magazine che deve anche intrattenere, devi colpire, quindi in quel caso magari ti muovi di più con l’illustrazione. Io ho visto che la soluzione migliore è quella di stare nel mezzo di questo spettro, quindi combinare una parte e l’altra. Sulla base dell’esperienza degli anni di IL, la forza era anche la squadra di lavoro, perché ovviamente, io sono comunque un grafico e ho i miei limiti nella fase di ricerca e poi anche nella fase di editing del testo finale. E poi erano i tempi in cui sul web proliferavano un sacco di data set, come magari anche delle false informazioni. Quindi l’importante era tutta la fase iniziale di ricerca, che si faceva con in mente quale doveva essere il titolo finale o una sorta di titolo di lavoro finale della doppia pagina, per andare a diritti al concetto e al tema. Poi nella fase di ricerca si faceva una preselezione, dopodiché si cominciava a organizzare questa informazione nella pagina e poi si introduceva – se si riteneva necessario – l’aspetto illustrativo. 

PF: Ti ricordi la prima infografica che hai fatto? 

FF: Sì, la prima infografica che ho fatto l’avevo copiata! Avevo copiato la ricerca. Ho copiato tutta la parte di dati. Al tempo non avevamo una vera e propria redazione che ci poteva supportare su questo. Quindi, mi ricordo, ho preso (forse da Le Monde) tutto un data set di informazioni. Era sugli aeroporti, sui viaggiatori degli aeroporti principali del mondo. 

PF: E l’infografica più complicata da fare tra tutte quelle che hai fatto? 

FF: Un lavoro che ho fatto per il Victoria and Albert Museum, che poi era una mostra. Era un’infografica che ripercorreva tutta la storia dei sistemi di memoria, ripercorreva anche tutta la storia di Giordano Bruno ed era questo lavoro di due metri. Era una mostra che si chiamava “Memory Palace” e immaginava un mondo in cui non si pubblicavano più libri e quindi era vietato stampare. Le persone dovevano rifarsi a questi vecchi sistemi di memoria per ricordarsi tutto il sapere a memoria.

PF: Nel 2008 sei passato da uno studio, Leftloft, che hai già citato, al Sole 24 Ore, quindi una realtà completamente diversa. Come è stato questo passaggio da uno studio grafico alla redazione di un giornale? Immagino che possa essere stato traumatico in un certo qual modo. Mi chiedo: è cambiato anche il tuo modo di progettare passando da una realtà all’altra?

FF: No. Più che altro io credo di aver avuto una grande fortuna, che è stata quella di trovare sempre dei grandi interlocutori, persone molto aperte, coraggiose, con quella voglia di tentare, di provare a fare cose diverse e soprattutto che mi hanno dato anche tanta libertà. Questo è successo a Leftloft; anche lì ho trovato delle figure che mi hanno dato la formazione iniziale, l’imprinting di base. Poi lo è stato anche al Sole 24 Ore, in modo diverso, ho imparato cose diverse. Non avevo più dei riferimenti interni per quanto riguarda il mondo della grafica, però avevo dei riferimenti per quanto riguarda tutto quello che poi è stata l’esperienza di praticantato giornalistico, così anche a Repubblica.

Questa è stata una grande fortuna secondo me, che mi ha dato la possibilità di esprimermi come designer, perché alla fine parliamo col lavoro che facciamo. Quindi avere lo spazio per poterlo fare e la libertà di poterlo fare è stata una delle cose più importanti in assoluto.

Poi per quello che riguarda il progetto, credo che alla fine l’esperienza [sia iniziata] già dal Politecnico, che comunque credo sia una scuola che ti insegna a progettare. Prima di tutto ti insegna un metodo progettuale, che poi è un metodo più scientifico che non di ispirazione. Quindi questo metodo [che parte] dalla ricerca, poi [passa] all’applicazione, al continuo confronto con gli interlocutori e con gli attori del progetto, al rispetto di tutte queste figure che partecipano al progetto, è una cosa ciclica che ho trovato ovunque e l’ho trovata anche all’interno delle redazioni. E quando questa cosa non emergeva abbiamo creato delle condizioni per far sì che questa cosa si realizzasse.

Mi riferisco anche al mondo di IL: la fortuna che ha avuto a quel giornale è stata quella di partire da zero, quella di fare [parte di] questo ambiente di lavoro molto orizzontale, partecipativo, quasi una bottega dove fare tutto all’interno, quindi lavorare con degli illustratori che erano dei ragazzi ma che si sono rivelati di super talento, che poi adesso lavorano in ambito internazionale, stanno lavorando da New York, da San Francisco. Era questo l’ambiente che poi si è riflettuto nel giornale, perché alla fine un giornale sono le persone che lo fanno. E la grafica esprime questo. La grafica non è una cosa che nasce così, a scatola chiusa: la grafica nasce dal’ambiente redazionale, perché non fa altro che dare forma a un contenuto, forma a dei pensieri, a delle idee, forma anche a delle interazioni che ci sono. E quindi deve funzionare principalmente questo aspetto per riflettersi poi in un giornale e vedere che un giornale è vivo. E soprattutto che ha energia, perché questo è devono essere i giornali: essere energia. 

PF: Nel 2017 arrivi alla Repubblica e ti mettono subito a testa bassa a ridisegnare in maniera piuttosto radicale il giornale, che poi hai ridisegnato dopo pochissimo tempo, raccontaci questa “doppia” che hai fatto nel giro di pochissimi anni. 

FF: Sì, che sono stato obbligato a ridisegnare! 

PF: Immagino che non siano state tutte scelte tue…

FF: Arrivo alla Repubblica nel  2016, dopo otto anni al Sole 24 Ore, anni dove ho lavorato sul mensile, un po’ sul quotidiano, un po’ sulla parte digitale. Il primo progetto di Repubblica è stato Robinson, quindi [ho seguito] la nascita di Robinson. Era un Robinson diverso da quello che troviamo ora in edicola, che abbiamo anche recentemente rinfrescato. Il progetto era nato dal volere del direttore di allora, Mario Calabresi, quello a cui ho lavorato con Angelo Rinaldi e Valentina Desalvo. Anche qui ti dico [quanto sia decisiva] l’importanza degli interlocutori, perché si è creato subito un ambiente che voleva fare qualcosa di diverso, che non si allineava a quello che faceva la concorrenza, a quello che poteva far tranquillizzare la concessionaria di pubblicità, perché magari si ritrovava negli spazi, si ritrovava nel prodotto con qualcosa che aveva già visto e quindi poteva offrire agli inserzionisti una cosa che li avrebbe tranquillizzati. [C’era] la volontà di fare qualcosa di diverso, di iniziare a lavorare con lo spirito di un magazine all’interno delle grandi pagine di un quotidiano. Però da un lato ce lo si poteva permettere perché era un supplemento allegato a un quotidiano, un supplemento di cultura che poteva essere a volte una copertina, a volte un manifesto. Tutte le volte diceva qualcosa e la parte centrale della storia di copertina riprendeva la grafica della copertina. Anche lì le difficoltà [esistevano] perché si lavorava con un sistema redazionale che è il sistema redazionale di un quotidiano, che è tutto fuorché libero di essere modificato perché comunque deve essere nelle deadline, nell’efficacia. Così è iniziata l’esperienza a La Repubblica.

Da Robinson è maturata l’idea di cominciare a lavorare a un carattere identitario perché comunque Repubblica stava diventando un brand multicanale, quindi c’era la necessità di mantenere la sua identità sui canali proprietari del brand ma anche sui canali di terze parti, quindi Instagram e social network, il sito. Bisognava dare l’identità del giornale su tutte queste interfacce, questi canali differenti. Dal carattere è poi nata l’esigenza di applicarlo in modo completamente diverso. Da qui si è aperto lo spazio per ripensare completamente il giornale. Dalla visione che aveva il direttore Mario Calabresi, insieme ad Angelo [Rinaldi] ci siamo messi e abbiamo iniziato a ripensare completamente il giornale.

Abbiamo fatto un giornale che si configurava in maniera completamente diversa rispetto a quello che era il panorama. Poi c’è la storia che te ho raccontato i tempi di Eye: guardando il film “Dunkirk” era venuta l’idea del giornale, di un giornale che allo stesso tempo ha quattro giornali nello stesso prodotto, che si svolge su quattro fasi temporali. 

Alla fine, ripensandoci, ci siamo accorti come [il nostro lavoro] non è più solo un “designing news” ma è “designing news experience”, quindi noi dovevamo progettare un’esperienza che va sia dall’ora al giorno, alla settimana, al mese, ma che allo stesso tempo si muove anche su quattro canali diversi perché comunque l’informazione la vediamo, la leggiamo, l’ascoltiamo con i podcast, la tocchiamo sui display ma anche sull’artefatto fisico, sulla carta.

Si muoveva all’interno di questa matrice più complessa e da qui [è nata] l’idea di fare un giornale, un news brand che fosse tutte queste cose insieme. Quindi ci si è messi a lavorare prima sul quotidiano, creando delle colonne verticali che dovevano essere spazi che nel tempo di una colazione ti potessero dare le notizie principali, per arrivare al lavoro e non far brutta figura. Un giornale che la sera non era invecchiato, con delle parti che potevi mantenere. Una parte centrale tutti i giorni della settimana differente, un inserto settimanale, vari inserti settimanali verticali su vari argomenti. Poi tutto il lavoro sui mensili, che in teoria dovevano essere lavorati in maniera diversa per alzare la qualità della carta. 

PF: Ripensando alla prima pagina della prima versione di Repubblica a cui tu hai lavorato, mi vengono in mente le ultimissime versioni dei sistemi operativi della Apple, perché in pratica avevate fatto una prima pagina che aveva dei widget. 

FF: Esatto, sì.

PF: Avevate in un certo qual modo seguìto il digitale, ma avevate anche un po’ anticipato quella che sarebbe stata una direzione presa in maniera molto chiara non solo da Apple, ma anche da Android, per quella che è la schermata iniziale del nostro telefono o del nostro tablet, adesso anche dei nostri computer. Ti rivedi in questa direzione, in questa visione che avevate avuto allora? 

FF: Sì, è vero, perché la volontà era quella di creare un’interfaccia ma allo stesso tempo un prodotto cartaceo ma che si inseriva in un contesto completamente diverso. A questo doveva seguire anche un adattamento del contenuto. Quello che io credo essere successo con quel progetto è che a un certo punto ci siamo trovati un po’ scollati tra la parte grafica e la parte del giornale. Forse noi siamo andati più veloci perché volevamo un prodotto un po’ diverso. Il contenuto non ha seguito il cambiamento del format. Quindi è stato forse un errore nostro, che non abbiamo rallentato con la forma per aspettare il contenuto. 

Però sì, comunque c’era la volontà di fare un’interfaccia, di creare un prodotto che doveva entrare in un mondo dove il quotidiano non ha più il ruolo di prima, ma ha un ruolo diverso, si deve configurare un ruolo diverso e deve essere complementare a tutti i canali che dicevo prima. Quindi si vede, si legge, si tocca, si ascolta. 

PF: Nonostante i continui annunci di morte imminente, i quotidiani cartacei sono ancora con noi. Calano le vendite (questo non è un segreto), si trasformano le abitudini, ma ancora ci sono. Alcuni quotidiani sono diventati digital first (il New York Times ad esempio), altri sono ancora paper first (credo la maggior parte dei quotidiani europei, tutto sommato). Il trasferimento totale del giornale sul digitale non ha funzionato perché comunque o nasci digitale o se sei nato cartaceo non ci diventi. È un po’ come per i libri, gli ebook non hanno ucciso il cartaceo: convivono. La musica invece ha fatto un percorso leggermente diverso: si è smaterializzata molto di più. CD e vinili, più che un’abitudine, sono una mania da collezionisti, mi vien da dire. Riesci a immaginare il futuro dell’editoria tra 10 anni? Pensi che rimarremo ancora in questa sorta di limbo oppure ci sarà un andamento simile a quello del mondo della musica? 

FF: Chi lo sa?…

PF: Tu cosa vorresti? 

FF: Mettiamola così: io vorrei dei prodotti diversi, soprattutto vorrei dei prodotti più interessanti che comunque rispecchino di più il cambiamento su tutti gli altri fronti. A volte noto che i giornali – un po’ per un circolo vizioso – hanno perso il ruolo che una volta invece ricoprivano. Io vorrei un prodotto che – se è un prodotto stampato – deve valere per essere stampato, quindi non deve essere una routine mandare in stampa un prodotto. Ci deve essere una confezione, un reparto di confezione come alcuni quotidiani internazionali stanno già cominciando a fare. La parte cartacea è una parte, una sorta di playlist curata nel dettaglio, quindi nel contenuto, che poi non necessariamente deve seguire l’agenda della giornata, perché quella alla fine di immediatezza ce l’hai (l’ora, che dicevamo prima) l’ora non ce l’hai più sulla carta, l’ora ce l’hai da altre parti. E allora sulla carta puoi avere il giorno, puoi avere la settimana, puoi avere il mese. E stampare un giornale vuol dire stamparlo bene, non vuol dire puntare al risparmio. Mi immagino delle edicole dove hai questi prodotti di più [alta] qualità.

PF: Forse è quello che sta succedendo a molta editoria legata al mondo dell’immagine (la moda, la grafica, il design, eccetera) dove ci sono dei magazine che sembrano molto spesso anche dei libri, no? Hanno un costo più elevato, un tasso di collezionabilità decisamente più alto e una qualità veramente incredibile. Quindi immagini qualcosa di analogo anche per l’editoria quotidiana? 

FF: Sì, qualcosa di analogo, anche con un’utilità differente.

PF: Parliamo di illustrazione. So che sei sempre stato un grande fan dell’illustrazione, (anche della fotografia, ma di quello parliamo dopo). Grande fan dell’illustrazione, [intesa come] racconto delle notizie, non tanto come corredo, ma proprio come parte del contenuto. In Italia siamo fortunati perché abbiamo una scuola, una wave di illustratori – più o meno giovani – ormai affermati a livello internazionale. Pensi che ci sia spazio per una crescita dell’illustrazione come contributo fondamentale per le notizie? 

FF: Penso proprio di sì. Io comunque sì, l’illustrazione la vedo sempre con una chiave di contenuto. L’illustrazione non è decoro, non è solo estetica, perché se così fosse allora adesso l’intelligenza artificiale avrebbe territori da conquistare. Invece comunicare un concetto con l’illustrazione è anche quello un lavoro giornalistico. 

PF: Per quello che riguarda la fotografia invece, mi raccontavi tempo fa che spesso ti dicono che tu scegli le fotografie come se fossero delle grafiche. Te lo dicono ancora?Succede ancora? E qual è secondo te il criterio principe per selezionare un’immagine adatta a una notizia? 

FF: Sì, forse io a volte sono un po’ maniaco degli allineamenti. Sono un grafico alla fine e quindi a volte è vero, guardo più l’aspetto grafico delle foto, senza focalizzarmi magari su altri. Però sì, la fotografia è un linguaggio fondamentale nel nostro lavoro e soprattutto anche qui, il bello delle redazioni è che tu comunque lavori con dei foto editor che ti insegnano tantissimo. Ne hanno viste passare o banalmente [hanno lavorato con] gli archivi dei giornali che adesso stanno andando completamente a scomparire. Però la fotografia ha un ruolo fondamentale. È vero: spesso, quando la inserisco negli impaginati, nelle copertine, eccetera, forse la tratto troppo graficamente e non lascio parlare solo la fotografia.

PF: A volte mi è capitato di vedere delle copertine fotografiche di riviste che curi e la parte scritta era chiaramente in dialogo con le figure umane, si spostavano per lasciare il giusto spazio di leggibilità a tutta la grafica. Si vedeva che non erano posate, ma probabilmente il taglio, i dettagli che evidenziavano erano proprio quelli. 

FF: Sì, sono un po’ ossessionato dalla griglia, diciamo dagli allineamenti. 

PF: Tu hai un motto? 

FF: No. 

PF: Magari c’è qualche proverbio che dici spesso? 

FF: Forse “Fà balà l’oeucc”.

PF: Spieghiamolo ai non milanesi che ci stanno ascoltando. 

FF: In realtà vuol dire un po’ “stai attento”, magari a volte [spingere a] trovare la soluzione più veloce, cioè non perdersi ma cercare di essere più svegli e di guardare, di muoversi con l’occhio. Andiamo al dunque, insomma, senza girarci tanto attorno. Sì, lo uso un po’ impropriamente.

PF: Immaginiamo che domani arrivi da te un editore. Arriva col progetto dei sogni, quindi progetto no budget (non nel senso che non c’è il budget, ma che il budget lo definisci tu) e ti propone però una scelta tra due progetti di news, di informazione: uno solo cartaceo e uno solo digitale. Quale scegli? 

FF: Beh…

PF: Secondo me qualche anno fa avresti dato una risposta diversa, non ci avresti pensato.

FF: Ah beh sì, qualche anno fa avresti detto solo cartaceo. Forse adesso ti direi digitale. Però un digitale un po’ – come dicevo prima – portando molto del cartaceo, che ormai si può fare perché tecnicamente è fattibile. È vero, avere il coraggio di sperimentare un po’ più il digitale, che vuol dire fare qualcosa senza guardare i competitor. Un po’ quello che ha fatto Semafor negli Stati Uniti: pensare a un giornale digitale con coraggio. Che poi vuol dire anche sbagliare, per carità, però è anche il bello. Poi se c’è un budget limitato possiamo permetterci di sbagliare!

PF: Ma certo, ovvio! Però devo dirti una cosa Francesco: ci siamo incontrati professionalmente diverse volte e se c’è una qualità che ti riconosco è la capacità di dire dove hai sbagliato. È una qualità rara tra i tuoi colleghi. 

FF: Alla fine facciamo grafica. Si fa in fretta a cambiar Bisogna dare l’importanza giusta alle cose. La grafica non salverà i giornali, la grafica non li fa vendere di più, l’abbiamo visto. Buttar via un progetto grafico per rifarne un altro non ha fatto vendere più copie. La grafica funziona e funziona nel momento in cui funzionano tutte quelle condizioni che ho detto prima. Funzionano gli attori, funziona il contesto, funzionano gli interlocutori. Allora sì, lì la grafica funziona, ma perché mette in dialogo tutto. Il ruolo del design è alla fine mettere assieme questi attori, trovare quell’empatia e far quadrare tutto. È anche un ruolo di organizzazione, che parte dall’organizzazione della pagina, ma che si risolve anche nel flusso di lavoro. Quando le cose funzionavano, funzionavano perché c’era questo contesto. Quando non hanno funzionato, secondo me prima di tutto è mancato questo. 

PF: Stanno cambiando i modi di fruire le notizie. Sta cambiando molto anche il modo che abbiamo di interfacciarci con il mondo attraverso gli strumenti digitali. Prima sembrava che tutto fosse computer, adesso sembra che sia tutto telefono. Forse si inizia ad andare verso un futuro in cui ci sarà il famoso spatial computing, in cui ci saranno occhiali, visori, eccetera. Penso agli Apple Vision Pro che ovviamente aspettiamo che arrivino e aspettiamo di provarli nella vita vera, al di là delle demo. Secondo te è uno spazio interessante quello dello spatial computing, quindi della visione, dello spazio, della realtà aumentata, della realtà virtuale? Secondo te è qualcosa che potrà portare qualcosa di positivo per le news o pensi che possa essere solo per l’entertainment o solo per altre cose che non riguardano l’informazione?

FF: Se torno al concetto che dicevo prima di designing news experience, ovviamente questi strumenti coinvolgono molte più celle della nostra matrice, quindi della matrice tempo e di come fruiamo. Quindi a livello di progettazione è ovvio che è un mondo interessante da esplorare. Certo, quello che abbiamo visto con i visori al momento non ci sembra che possa essere una valida alternativa o un nuovo modo di fruizione di routine. Quello che Apple ci ha fatto vedere è senza dubbio un salto rispetto a quanto abbiamo visto finora. Quindi secondo me è interessante dal punto di vista progettuale, dal mio punto di vista dico: sì mi piacerebbe esplorarlo.

PF: Francesco è arrivato il momento della raffica. Ti ricordo le regole, sono 10 domande a sorpresa, solo risposte secche, solo una possibilità di passare e una possibilità di argomentare, quindi vedi di giocartele bene.

Allora, domanda number one. Hai a disposizione un’ora di lettura tutta per te. La dedichi alla letteratura o a un saggio?

FF: A un saggio.

PF: Un weekend in bicicletta, da solo o in gruppo?

FF: In gruppo, ma devo essere allenato perché al momento il gruppo mi staccherebbe. Quindi forse al momento è meglio da solo, però è più bello in gruppo.

PF: Montagna o pianura?

FF: Montagna.

PF: Hotel o camper?

FF: Camper tipo van? Allora van.

PF: Lego o meccano?

FF: Lego.

PF: Un vaso pieno di fiori o un vaso pieno di caramelle?

FF: No, vabbè, di fiori.

PF: Bollicine italiane o francesi?

FF: Italiane.

PF: Penna a sfera o roller?

FF: Roller è tipo quella con l’inchiostro di Muji?

PF: Esatto.

FF: Allora roller.

PF: Quando piove prendi la bici o vai in metro?

FF: Eh, sto invecchiando. Vado in metro.

PF: L’ultima domanda della raffica. Ti ricordo che hai ancora la possibilità di passare.

FF: Vabbè, fino a adesso era un facile.

PF: Roma o Milano?

FF: Milano dai.

PF: Proprio non passi neache qua!

FF: Ma no…

PF: Proprio secco!

FF: Però sono belle entrambe, per carità.

PF: Ti è venuto fuori “Milano!” con una voce strozzata alla milanese. Ti è venuto da Dio, perfetto. È arrivato dal cuore.

Allora, la domanda finale del podcast. Qual è un libro per te importante che dovremmo leggere anche noi?

FF: Ma allora c’è un libro che però è un libro…

PF: Qualsiasi libro, vale tutto, anche le istruzioni della macchina da cucire.

FF: È un libro di urbanistica che si chiama “Il professionista riflessivo“. Si applica al caso dell’urbanistica, però può essere applicato a qualsiasi contesto del design, qualsiasi contesto progettuale. Me lo aveva regalato uno dei soci di Leftloft. Per lui era stato un libro di chiarificazione su vari aspetti della nostra professione. Tante cose che ho raccontato dell’ambiente di lavoro derivano anche da quella lettura che ho fatto prima di iniziare a lavorare all’interno delle redazioni. Lo avevo portato anche nel mio primo lavoro di tesi, che poi è diventato il libro con Gestalten. Nnon so se si trova anora, perché comunque è un libro scritto da un professore di urbanistica del Politecnico.

PF: Certo, certo. Però magari si trova su eBay, nei meandri del web.

FF: Ha dei passaggi un po’ filosofici, ma è comunque d’aiuto.

PF: Bene, lo mettiamo nelle note del podcast, per cui se lo trovo lo linko nelle note del podcast. Francesco, grazie mille per la chiacchierata.

FF: Grazie a te. E a voi per aver ascoltato.

 

 

Puntata registrata in studio a Milano il 1 dicembre 2023 e pubblicata il 15 dicembre 2023.

La trascrizione è stata effettuata utilizzando strumenti di intelligenza artificiale e successivamente editata dall’autore.

 

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