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STAGIONE 5 — EP. 5

Matteo Ward: la sostenibilità è un’utopia necessaria

01/2024 — 44:58

La vera sostenibilità è un’utopia? Da dove si parte per progettare qualcosa di realmente sostenibile? Cosa devono fare le aziende (di moda e non solo) e cosa possiamo fare tutti noi nel nostro quotidiano? Qual è il ruolo del design in questi processi?

Con grande chiarezza, Matteo Ward ci aiuta a rispondere a queste domande, condividendo i suoi dubbi e tante possibili soluzioni.

 

I link dell’episodio:

– La mostra “Are Clothes Modern?” di Bernard Rudofsky https://www.moma.org/calendar/exhibitions/3159

– Il manifesto futurista “Il vestito antineutrale” https://www.memofonte.it/files/Progetti/Futurismo/Manifesti/I/68.pdf

– La docuserie “JUNK, Armadi pieni” https://willmedia.it/junk/

– Progetto Quid https://www.quidorg.it

– Rifò Lab https://rifo-lab.co

– Il sito Apparel insider https://apparelinsider.com

– Il libro “Design per il mondo reale” di Victor J. Papanek https://www.quodlibet.it/libro/9788822905581

PF: Sono Paolo Ferrarini e questo è Parola Progetto. Parola Progetto è un podcast di dialoghi con persone che vivono di progetti dove si racconta il design in tutte le sue forme, senza oggetti e immagini, solo attraverso la parola. 

Ed eccoci qua. Oggi siamo a Milano con Matteo Ward, amministratore delegato e cofondatore di Wråd. 

Parliamo spesso di sostenibilità, troppo spesso senza sapere di cosa stiamo parlando. Matteo invece è uno di quelli che la affronta e la racconta con cognizione di causa. Mamma Vicentina, papà americano, Matteo inizia la sua carriera nella moda istituzionale, ma se ne stacca presto. “Ho fatto una scoperta“, dice, “quello che indossiamo costa molto di più di quello che lo paghiamo“. E non parla solo del costo materiale. Per questo, nel 2015, con un gruppo di amici, fonda Wråd, studio dedito allo sviluppo sostenibile e società benefit. Oggi è vicepresidente di Fashion Revolution Italia, consulente per il tessere della Commissione Europea per il New European Bauhaus Festival, docente e speaker a eventi in Italia e all’estero. È stato coautore e presentatore di Junk, docuserie co-prodotta da Sky Italia e Will Media. 

Ciao Matteo, benvenuto a Parola Progetto. 

MW: Ciao Paolo, come stai? 

PF: Bene, bene, tutto a posto, pronto per imparare un sacco di cose. Oggi so che imparerò tanto. 

MW: Anche io da te sempre, devo dire la verità. Ti ricordi che il primissimo talk su questo tema, uno dei primissimi, l’ho fatto proprio con te. 

PF: È vero, è vero. Parliamo di tanti anni fa a un Brera Design Festival, di tantissimo tempo fa. Bene, bene. 

MW: Io ero agitatissimo. Ma è andata benissimo per cui… e siamo qua dopo tanti anni per cui, insomma, 

PF: Dobbiamo dire che Sara Sozzani Maino è stata il gancio che ci ha fatto conoscere, ci ha visto lungo. 

MW: È stato il primissimo talk con lei e con con te in un contesto come quello e mi sentivo come sempre, un po’ il pesce fuori d’acqua. Infatti sono arrivato ed ero veramente agitato, ho cercato di nasconderlo al meglio, ma eccoci qua. 

PF: Sono successe tante cose in questi cinque o sei anni. Sono volati e oggi, insomma, ne vedremo un po’. Allora, volevo partire da una frase che ho ritrovato spesso nelle tue interviste, nei documenti che parlano del tuo lavoro e così via. Ti definisci “un pentito di moda“. Cosa tosta. Come e quando hai capito di essere un pentito di moda? C’è stato un percorso o ti è arrivata un’illuminazione, un colpo, qualcosa che ti ha fatto cambiare idea?

MW: Tre colpi nell’arco di un anno e mezzo. Il primo, il crollo di Rana Plaza in Bangladesh. Nel 2013 crolla uno stabilimento tessile che ospitava circa 5.000 dipendenti. Non crolla per un incidente, un terremoto, qualcosa di inevitabile. Crolla perché erano stati tagliati i costi di manutenzione per lo stabile, il budget eliminato, perché dall’altra parte del mondo i brand che producevano lì chiedevano dei costi, dei prezzi sempre più bassi. Quindi abbassi il costo della manodopera, abbassi il costo delle utenze, a un certo punto togli il budget per la manutenzione dello stabile. Pensa che c’erano già delle crepe nei muri, i lavoratori avevano denunciato questo fatto (penso all’equivalente delle risorse umane) sono stati obbligati ad andare al lavoro, il palazzo crolla, muoiono 1.138 persone. Quello è stato per me l’inizio del percorso, perché io dico sempre – non solo per me ma per tutti – nella moda c’è un pre e un post Rana plaza, non possiamo non vedere al 2013 come uno di quegli anni, di quegli eventi che creano una scissione sismica le cui onde si ripercuotono ancora un po’ su tutti. Però non ho avuto il coraggio di licenziarmi subito dopo e fare questo cambio di vita, perché non avevo il coraggio, mi sono spaventato. Mi sono sentito uno scemo, non capivo dove ero, mi ero un po’ illuso di potere in qualche modo [ignorarlo], siccome il nostro brand non produceva lì. Ho detto “vabbè, ma nopi non siamo così come quelli lì, no? È impossibile“. E in realtà poi scopro che era un problema endemico di tutte le aziende che producevano in tutto il mondo, che non c’era alcun tipo di controllo sulla filiera, di rispetto per le persone che stavano nella nostra catena produttiva. E man mano che ho iniziato a in qualche modo a scavare livello su livello di verità, più andavo a fondo più mi spaventavo, sentivo la voglia di licenziarmi, uscire, però non sapevo che cavolo fare perché fa paura abbandonare il posto di lavoro fisso e mamma italiana mi diceva “non pensarci nemmeno“, cioè ero l’orgoglio, sapere che avevo il posto di lavoro stabile. Papà americano invece in inglese mi diceva “go do whatever the f**** you want, fai quel cavolo che vuoi“. Mi sono deciso a licenziarmi quando mi stavano dando una promozione perché nel frattempo accaddero altre due cose. La prima: una serie di certificati medici da parte dei nostri dipendenti in Germania (io lavoravo per questo grosso gruppo di moda americano) per reazioni allergiche alle tinture usate nei jeans. E la seconda un ragazzino che entra in negozio ci chiede “da dove viene questa t-shirt? Perché questa t-shirt costa meno di questa e questa è fatta in Bangladesh e questa è fatta in Sud America? Non mi ricordo neanche in che paese“ e ho detto “che ne so io“. Il fatto che ci abbia messo sei settimane, comunque per non avere una risposta dalla casa madre, mi ha fatto capire che ero complice di quello stesso sistema e quindi poi mi sono licenziato. 

PF: Quanti anni avevi? 

MW: Ventotto. 

PF: E sei partito subito con un’iniziativa concreta o ti sei preso del tempo per pensare, approfondire, cercare una tua strada? 

MW: Sono partito per un viaggio un po’ metaforico ma reale, nel senso che sono tornato a casa, liquidazione in tasca, ho fatto lo zaino, ho fatto due settimane a Vicenza dove cercavo di rassicurare mamma e me stesso. In realtà non avevo la più pallida idea di quello che sarei andato a fare. Sapevo perché stavo per fare quella cosa lì e siccome avevo bisogno di capire la verità, quale fosse il reale costo dell’industria della moda, mi sono allontanato in un viaggio. Mi sono allontanato da casa e ho iniziato a viaggiare in giro per l’Europa, prestando un po’ di attenzione, dando anche il mio tempo, ho fatto anche da volontario, ho fatto tanta ricerca per organizzazioni o enti che si occupavano della tutela dell’ambiente delle persone, che avevano a che fare con l’ambito tessile ma anche no. Avevo scelto ad hoc dei paesi perché sapevo che in quei paesi c’era qualcosa di relativo a quella sfera di ricerca. Quindi iniziamo a esplorare il rapporto tra la moda e l’acqua, la moda e le sostanze chimiche, la moda e la plastica che è nel 70% dei nostri vestiti, la moda e il riciclo. A Parigi per esempio già nel 2015 c’era già la REcyclerie, che c’è ancora oggi. Sono andato l’altro giorno ed era piena di gente, ero felicissimo. Nel 2015 era ancora semivuota ma era un primo inizio dell’idea di progettare spazi per consentire alla cittadinanza di riportare i loro abiti, di ripararli, ripararli in modo collettivo, collaborativo, con dei maestri oppure con i bambini, divertirsi e al tempo stesso mangiare qualcosa. Quindi iniziamo a capire cosa possa davvero significare vivere il guardaroba in modo più responsabile. Sono tornato a Vicenza dopo due mesi e mezzo da questo viaggio perché avevo finito la liquidazione. Bisognava ricostruire il gruzzolo e ovviamente in casa mi dicevano: “quindi che fai?”. [Mi sono detto] “Ho scoperto tante cose: le racconto”. Abbiamo creato un progetto educativo e siamo andati nelle scuole. 

PF: Siamo nel 2015, correggimi se sbaglio, e nasce Wråd che fa promozione, divulgazione ma anche produzione. Raccontami un po’ come è stata questa prima fase, perché poi è evoluto molto il progetto. Partendo dal nome, che è un nome stranissimo e anche difficile: Wråd che è scritto W.R.A.D. con il cerchietto [anello diacritico] sopra la A. 

MW: La diacritica, ce l’ho tatuata anche sul polso. Ti spiego perché parto da qua. Mi ero detto: “se sopravviviamo i primi cinque anni mi tatuo il brand”. Infatti nel 2005 sono andato [e ho detto] “tatuiamolo!”. Cosa significa? Nel 2013-2014 io lavoravo – come dicevo prima – per un brand di abbigliamento che mi chiese di andare a fare ricerca su quello che era la moda sostenibile in nord Europa. Io tornai con un feedback che era abbastanza tranchant. Ho detto: “Ragazzi, non preoccupiamoci, “è una roba molto raw (che in inglese è organico, verace, naturale, crudo) and it’s not rad (non è rad, non è figo, non ha nulla di radicalmente innovativo, originale, creativo in quel che possa ispirare il pubblico)”. Quello fu il feedback. Tornando a casa poi andai a correre e pensavo: “Ma se esistesse qualcosa che coniugasse queste due anime, qualcosa di onesto, naturale, crudo e al tempo stesso radicalmente unico, figo, coinvolgente? Potrebbe veramente rivoluzionare un po’ il sistema, il modo di progettare”. “Anche se un domani – mi sono detto – creo qualcosa, vorrei che provasse sempre a coniugare queste due anime“. Poi a casa continuavo a pensarci. L’ho scritto e siccome il mio cognome è Ward (W.A.R.D.) e vedo che in quelle due parole c’erano tutte le lettere del mio cognome. Ho detto; “no vabbè è fatto“. 

PF: Il destino nel nome!

MW: E così siamo partiti con un progetto formativo. La linea temporale era una: noi siamo nati come un progetto educativo. Noi andavamo nelle scuole, andiamo ancora oggi in tutte le scuole a fare dei workshop gratuiti pro bono per gli studenti, per insegnare, per capire assieme qual è l’impatto dell’industria della moda e come provare noi – partendo dal nostro rapporto col guardaroba – roba a rivoluzionarlo. Dopodiché, un anno dopo siamo diventati una startup innovativa, nel 2016, perché tanti ragazzi ci chiedevano “ma quindi dove vado, cosa posso comprare, c’è qualcosa di innovativo sul mercato?“ Non c’era. Iniziamo a collaborare con Susanna Martucci che è l’inventrice di Perpetua la Matita, la prima matita fatta tutta in grafite riciclata, un’idea di progetto che poi ha informato la nostra progettualità. Siamo andati a costruire la prima maglietta fatta tutta in grafite riciclata creando una supply chain che prima non c’era. Fatto quello, fallisce il progetto perché in realtà io pensavo che tutti avrebbero voluto prendere in licenza questo brevetto, che poi diviene un brevetto reale di processo produttivo. Avevo una community di ragazzi che ci seguivano, io mi sentivo abbastanza un figo in quel momento lì, a fine 2016. Ho detto: “abbiamo tutte le carte per andare a rivoluzionare il mondo della moda!” In realtà andò tutto molto male. Ci hanno chiuso le porte in faccia un po’ tutti. Oppure [dicevano]: “Tanti complimenti e in bocca al lupo, si vede che sei appassionato, andate avanti ragazzi siete dei fighi”. Però non riuscivo a capire come creare qualcosa di reale che avesse anche una sostenibilità economica. Allora creiamo nel 2017 lo studio di design. Iniziamo veramente noi a progettare dei capi che fossero manifesto di quello che potesse significare moda responsabile, moda etica, con un oggetto in mano, non presentandolo con tante parole scientifiche ma realmente come qualcosa di tangibile in cui – ecco, questa è stata la chiave – un brand o cliente partner investiva non tanto perché avesse bisogno nel proprio portfolio di un’altra maglietta grigia. Chi cacchio ha bisogno di una maglietta grigia? Nessuno! Che poi costava molto di più delle altre, non c’era alcun tipo di bisogno. La chiave stava nel fatto che davamo ai partner la possibilità di diventare nostri collaboratori, nostri partner nel recupero, nello smaltimento di questo minerale (che altrimenti finiva in discarica) che era la grafite. Era il 2017, quindi gli anni in cui i brand iniziano a sentire l’esigenza di fare qualcosa. In più c’era l’aspetto sociale, che per me era importantissimo, perché pensa che la grafite veniva usata 2000 anni fa dagli antichi romani per tingere i vestiti e quindi questa storia era completamente dimenticata, stava nel libro di Plino il Vecchio e da lì non era più venuta alla luce. C’erano tre signore in Calabria che ancora si ricordavano come le loro mamme, le loro nonne tingessero con quella grafite fino agli anni ’30, anni ’40 nel paesino di Monterosso Calabro. Quindi sono andato a Monterosso Calabro e ho scoperto questa cosa, per cui di fatto per noi ogni progetto diventava anche un modo per portare alla luce questo pezzo di storia tessile italiana che era completamente dimenticato. E i primi che ci ascoltano in questi termini sono state due persone, Federico Marchetti di Yoox Net-A-Porter e Roberta Valentini di Penelope Brescia. 

PF: Tecnicamente come viene realizzata? Che cos’è questa tecnica di cui stai parlando? 

MW: È un processo di tintura e anche di finissaggio del tessuto. Noi prendevamo la polvere di grafite (che è il sottoprodotto della produzione di elettrodi in grafite) da un’azienda torinese. Lavoriamo ancora con loro, si chiama Tecno EDM. La grafite è un minerale che viene usato praticamente per qualsiasi cosa. È preziosissimo perché ha delle proprietà veramente eccellenti in termini di performance, di conduzione termica, conduzione energetica, lubrificante, viene usata anche per gli stampi. Provo a descrivere: immagina questi blocchi di grafite grigi (che è la mina della grafite), quindi questi blocchi enormi grigi che vengono tagliati in diverse forme e dimensioni. Nel taglio ovviamente quello che viene buttato via, [ovvero] questa polvere che viene gettata in discarica, ha un costo molto elevato. La polvere viene aspirata fuori dalla fabbrica, portata a Venezia, lì viene vagliata per essere sicuri che non ci siano residui tossici (perché la grafite è di fatto inerte), portata in sospensione acquosa e con quella soluzione acquosa andiamo in tintura. La grafite si lega alla fibra e ogni t-shirt o felpa, diventa uno strumento per rivalorizzare questo minerale. 

PF: E la t-shirt, la felpa di cui parli, è di cotone, giusto? 

MW: Abbiamo iniziato col cotone e poi abbiamo iniziato a esplorare la lana, la seta, la canapa. 

PF: Sono ancora in produzione queste cose? Qualcuno le fa, voi le fate? 

MW: Noi le facciamo, però ho avuto un po’ un dilemma dell’impostore nel 2019. Dal 2017 questa cosa inizia a andar bene. Arriviamo a fine 2019 e mi ricordo [che] è stato un anno pazzesco perché alla Design Week di quell’anno avevamo dodici collaborazioni solo sulla città di Milano attive con quel prodotto. Ho detto: “ragazzi ci sta scoppiando la cosa, ci sta andando fuori”. Era l’anno in cui veramente – pre-pandemia – c’è stata la sostenibilità che ha preso il sopravvento. 

PF: Era la chiave di lettura, la chiave di volta di buona parte delle installazioni di quell’anno al Salone. C’era tantissimo verde, tantissime piante, tantissimi muri verdi, giardini verticali. 

MW: Verissimo! Tante piante, tanto green, tanto green washing! E poi c’eravamo noi che eravamo un po’ i visti come i randagi, gli outsider che dal 2015 parlavano di questa cosa. Per cui improvvisamente tutti quelli che prima ci dicevano “ciao, bocca al lupo” iniziano a chiamarci. Però iniziavo a viverla un po’ male. Perché ero anche consapevole che per quanto il prodotto potesse avere una funzione in più, comunque nessuno aveva bisogno di me per immettere nel mondo altre magliette, felpe, quel cavolo che era. Anche se il prodotto mitiga l’impatto ambientale, [per] creare oggi un nuovo prodotto e metterlo nel sistema veramente bisogna ragionare bene sul progetto, perché abbiamo 150 miliardi di capi di abbigliamento che vengono prodotti ogni anno. Quindi mi sentivo come se stessi veramente venendo meno un po’ a quello che volevo fare, [ovvero] mettere in discussione lo status quo. Ero caduto vittima di un sistema che mi garantiva sostenibilità economica se vendevo sempre più di queste magliette. Poi mi dicevo: “sì, ma riesco a recuperare e a riciclare molta più grafite”, che è vero, verissimo. Però comunque mi sembrava che mancasse qualcosa. 

PF: Comunque dovevi produrre cose nuove. Per quanto fossero meno impattanti socialmente, più giuste, ecologicamente più corrette eccetera, comunque stavi aggiungendo materia, stavi aggiungendo cose. Invece – mi sembra di capire – il tuo desiderio era quello proprio di mettere in questione il fatto di aggiungere. 

MW: Il fatto di aggiungere roba di cui non c’è bisogno. Io faccio sempre questa domanda: “Chi è che ha bisogno di una maglietta grigia?“ Cioè, io che lacuna colmavo? O che bisogno risolvevo? Sì, recuperavo la grafite, magari. Ma era parziale, per me non era completa l’equazione, per cui mi sentivo un po’ un impostore anche se mi dicevo: “ma no Matteo, ma fai quello“. Sì, lo so, ero consapevole di tutto, però c’era qualcosa che mancava. La vivo malissimo e devo dire che la pandemia invece mi dà una bella mano nella difficoltà, perché ci mette in enorme difficoltà economica, ma trovo anche il coraggio di fermarmi. Non perché avessi trovato il coraggio, in realtà tutti i negozi chiudono, la Design Week non c’è stata, era stata cancellata. 

PF: Mi ricordo bene!

MW: E quindi di fatto ho detto: “vabbè, quale miglior occasione di rivedere il business model e capire dove vogliamo andare con questo progetto?“ E quindi Wråd ha iniziato a evolversi in quello che poi oggi che è un ecosistema dove coesistono formazione, innovazione e design a partire veramente dall’enorme difficoltà che abbiamo provato e superato dopo la pandemia. 

PF: Quindi oggi Wråd che cos’è? 

MW: Oggi siamo uno studio di design e progettazione, quindi abbiamo un business model fluido. In un momento storico in cui c’è tanta incertezza e anche delle previsioni non proprio rose sul futuro, credo che i metodi di progettazione dell’abbigliamento debbano per forza di cose abbracciare una complessità che fino a ieri era completamente esclusa dal business model, perché doveva invece andare molto veloce con degli standard rigidi. Una volta si tendeva a standardizzare tutto. Oggi quella linearità non è consentita. Ci vuole una complessità che deve essere abbracciata con un approccio multidisciplinare che richiede anche tanta versatilità nel dire: “quello che funziona oggi non necessariamente funziona domani“. E l’unico modo per farlo – quindi per rispondere a cosa siamo oggi – siamo una realtà che nella sua complessità ha trovato la formula per garantire anche una sostenibilità economica e fare dei progetti di cui siamo orgogliosi. Non vado a letto con la sindrome dell’impostore. Perché quando ci chiama per esempio un cliente per chiederci: “voglio fare la capsule [collection] green“, viene eliminato immediatamente perché gli dico “per capsule green intendi di colore verde?” e già li capisci. 

PF: E tu gli chiedi: “ma abbiamo veramente bisogno di un’altra maglietta verde?“

MW: Esatto. Ma chi se ne frega di sta roba. Adesso non posso fare nomi e cognomi, però tanti progetti sono nati con una domanda provocatoria e vedevi l’altra parte che rimaneva un attimo [titubante]. E allora però riesci a creare delle soluzioni innovative (se dall’altra parte trovi invece terreno fertile) che portano dentro formazione, magari per tutta l’azienda, su cosa significhi davvero sostenibilità, quindi creazione di nuove linee guida per lo sviluppo sostenibile. Per ogni manager formato andiamo a formare degli studenti che hanno bisogno in scuole in giro per il mondo e per l’Italia, per cui si è creato questo one-for-one business model. Quindi dalla formazione aziendale si va sulla formazione gratuita sul territorio. [Facciamo] innovazione di pensiero e progettazione, per cui entriamo negli uffici stile, entriamo negli uffici di design, iniziamo a ragionare non tanto come creare delle linee guida di sviluppo sostenibile che non servono un tubo se sono generiche generali, ma quasi delle bussole di progettazione ad hoc per ogni singolo prodotto. La sostenibilità del prodotto si misura in base all’equilibrio che raggiunge tra funzione, metodologia e forma, e che in realtà è design. Cioè, il design deve fare questo. 

PF: Come dire: riassumiamo tutto in una parola molto semplice. 

MW: Eh sì, perché se infatti tu vai a leggere quello che i grandi designer negli anni ’70 scrivevano, iniziavano a trattare l’ecologia come qualcosa [di importante]. Ci hanno lasciato scritto tutto quello che dobbiamo fare oggi per capire come riprogettare l’abito, no? Allora portiamo queste innovazioni di pensiero, questa cultura del design all’interno delle aziende di moda che si sono un po’ dissociate dalla cultura del design, devo dire. E poi eventualmente se troviamo un campo di applicazione, una funzione che non c’è o riusciamo a massimizzare l’impatto ambientale e sociale attraverso la creazione di un prodotto in co-branding oppure in white label, si arriva anche lì. Oggi, per esempio, una necessità forte che sento è che tante aziende sono stracolme di tessuti abbandonati, o semi abbandonati, perché i brand lanciano 3000, 5000, 10.000 metri, ne usano X e questi non sanno dove buttarli. Siccome ho visto con i miei occhi dove finiscono tutti gli avanzi, le rimanenze. La cosa più responsabile da fare – me lo insegna la Orsola di Castro che è una grande mentore –  è guardare quello che già c’è. Allora già lì è una funzione enorme perché c’è stato un costo ambientale, c’è già un valore sociale intrinseco in quella roba lì. Se la butti via, ragazzi [non va bene]. Allora si riparte da lì, si riprogetta da lì. Oppure in ambito medico, per esempio, da una chiacchierata con un primario nell’ospedale di Vicenza, di terapia intensiva neonatale, è venuto fuori che il 70%, pensa Paolo, il 70% delle morti dei bambini ricoverati nel reparto di terapia intensiva neonatale, bambini prematuri, avviene per infezioni batteriche. Io pensavo, immaginavo che [succedesse perché] non sono sviluppati, non hanno gli organi completamente sviluppati, per problematiche di natura diversa dalla classica infezione da batterio. Pensavo a qualcosa che viene da dentro piuttosto che a qualcosa che viene da fuori. Per farmi capire le dimensioni di questi bambini mi tirano fuori – perché non potevo avvicinarmi loro, ovviamente non hanno sistema immunitario sviluppato – mi tirano fuori una tutina che indossano per farmi vedere quanto grandi sono. Erano grandi come la mia mano. [Erano] 100% poliestere, magari recuperata anche delle bambole, perché nessuno li fa. Il poliestere è una di quelle fibre che aumenta la proliferazione batterica. Quindi capisci che manca la cultura del design, perché non puoi andare a progettare qualcosa senza avere condizioni di causa di dove viene applicato. È come se facessi una lampada, non mi chiedo se è una lampada che deve andare sul soffitto, una piantana, non hai dei degli spazi in cui deve andare, progetto un divano senza vedere la casa, cioè non lo puoi fare, con l’abito tu devi pensare al corpo in cui va. E allora facciamo queste tutine che hanno abbassato la proliferazione batterica del 85%, semplicemente, ma non perché siamo dei geni. C’era già tutto sul mercato, abbiamo rimescolato gli ingredienti, abbiamo creato una nuova ricetta e restituito delle tutine fatte così. 

PF: Accipicchia, questo è un esempio potentissimo di come il rapporto tra corpo e moda passa anche attraverso la salute e non è solo questione esempi classici che si fanno [su] come la moda influisce sulla salute e allora pensi al corsetto, pensi a tutte queste cose che deformano. Tutti abbiamo gli occhi pieni di queste immagini dalla storia del costume, però anche arrivando al contemporaneo, parlavi prima di irritazioni cutanee, eccetera eccetera, ma in questo caso il tessuto giusto può salvare la vita. Grazie Matteo perché non riesco a immaginare a un migliore esempio di design applicato bene per il corpo, per la salute, per l’ambiente, per tutto quello che ci siamo detti. Questa è veramente una cosa molto bella. 

MW: Pensa che i primi che ne parlarono in modo un po’ diverso furono i maestri futuristi col Manifesto del Vestito Antineutrale e parlarono, con una parola da prendere un po’ con le pinze, dissero “dobbiamo fare vestiti igienici“. Ok, fermi tutti. Al di là dell’ideologia politica che ovviamente non sposo e nessuno di noi abbraccia, sono andato a leggere cosa intendevano: dei vestiti sani per la pelle. Salvatore Ferragamo 15 anni dopo quello scritto, [con] tutte le sue collezioni, i suoi più di 300 brevetti che ha fatto, se tu leggi la moda futurista e leggi quello che ha fatto, è quella roba lì. È il primo che si pone il dubbio che forse la scarpa come architettura di qualcosa che serve per sostenere il corpo non è fatta bene, quindi studia l’anatomia e progetta la scarpa di conseguenza, ci mette una forma spettacolare e nasce quello che sappiamo. Da lì ci siamo persi, basta. C’è stata una mostra nel 1944 al MoMA di New York, curata da Bernard Rudofsky, spettacolare, “Are clothes modern?“, i vestiti sono moderni. C’è un’infografica che è bellissima, come se fosse la corteccia di un albero e vedi tutti gli anelli. In realtà è una sezione del corpo umano vista dall’alto e fa vedere gli strati di tessuti che lo avvolgono e ci invita a ragionare proprio in funzione di quelli più limitrofi al corpo, cosa devono fare per la pelle, quelli esterni invece cosa devono fare per l’ecosistema esterno e per proteggere il nucleo che è il corpo umano. Io parto da lì, noi partiamo da lì. 

PF: Matteo, parliamo di “Junk, armadi pieni“. Quando qualche mese fa sono uscite le prime puntate di questa serie fatta – come dicevamo all’inizio – con Sky e Will Media, i miei studenti di moda non parlavano d’altro. È stata una cosa impressionante. Veramente tutti dicevano “ma l’hai visto?“. Soprattutto quando sono uscite le prime due puntate, è stato un colpo molto molto forte perché hanno visto quello di cui avevano sentito parlare per tanto tempo, quindi hai toccato delle corde molto molto profonde. Quello che mi piace di questa serie (che per chi ci sta ascoltando è disponibile su Sky, ovviamente, ma anche su YouTube, quindi potete guardarvela gratuitamente) è la capacità che avete avuto di trovare il giusto equilibrio tra emozione e informazione. Raccontaci come è nata l’idea e come l’hai sviluppata, perché dall’avere l’intuizione di fare questa cosa qua, al realizzarla immagino che ci siano dei passaggi non scontati. 

MW: Forse è più semplice che uno possa immaginare. Perché è nato per caso, è nato da un Instagram Story che io feci ad agosto dell’anno scorso [2022, ndr], dove lamentavo il fatto che in Italia, in italiano, per i ragazzi italiani non ci fosse ancora un progetto, un prodotto televisivamente fruibile per spiegare in modo pop, accessibile, figo, qual è il reale costo ambientale e sociale di quello che noi siamo. Punto. Mi scrive da Will Media (che è uno dei co-produttori) Alessandro Tommasi, il fondatore, che ha visto questa storia e mi fa: “Cosa hai in mente?“ Ho fatto una call con lui, mi ricordo benissimo, erano i primi di agosto, io ero a Palermo e gli ho detto: “Senti, dammi dieci giorni e ti mando un’idea“. Quindi con un ragazzo del nostro team, Giorgio, iniziamo a buttare giù un’idea di 12 episodi e gli ho detto: “Basta fare un diario di viaggio, 12 paesi nel mondo, ogni paese con un focus diverso e raccontiamo questa cosa qua“. È nata così, perché poi dopo un mese e mezzo siamo partiti. Will Media lo porta a Sky Italia, Sky Italia dice: “co-produciamo questa cosa, ci piace”. Ho fatto un incontro intermedio per presentarmi. “Ciao, piacere, sono Matteo”. Poi, in realtà sai come vanno queste cose nel nostro mondo. Spesso [c’è] tanto entusiasmo e poi [si sgonfia]. Perché non ci avevo neanche dato troppo peso io, non volevo da un lato illudermi e ho continuato a progettare e andare avanti. Invece poi, dopo metà ottobre mi dicono: “Partite a fine ottobre“. E io: “Con chi?”. “Con XYZ”. Perché non li conoscevo. A me spaventava tantissimo partire a fare una roba del genere, dove ci mettevo la faccia, con delle persone che non conoscevo. E ho detto: “Scusate, a me questi nomi non dicono niente, fatemeli conoscere“ e poi mi sono innamorato. Ho scoperto dei ragazzi, un team fenomenale, i due registi che hanno loro il merito di aver trovato quel balance, quell’equilibrio che tu hai descritto tra informazione e emozione. Loro sono stati geniali e bravissimi nel voler dare questa direzione alla serie. Sono Matteo Keffer e Olmo Parenti, sono i due registi che hanno seguito le sei puntate. Poi assieme a loro c’era un direttore della fotografia, Edoardo Anselmi, che è molto bravo, e il produttore Marco Zannoni, senza il quale non saremmo sopravvissuti, letteralmente. 

PF: Sì, perché avete incontrato anche delle situazioni spiacevoli in cui non tutti erano felici che voi faceste certi tipi di riprese. 

MW: No, no. Comunque, Junk è un nuovo punto d’arrivo ma anche un nuovo punto di partenza. Perché è vero che noi abbiamo segnalato queste cose perché sapevamo che c’erano queste cose in quei paesi, ma anche per noi che stavamo lì, la stessa reazione che hanno avuto i tuoi studenti, l’abbiamo avuta noi. Sbigottiti. 

PF: Ci sarà una seconda stagione? 

MW: Ce lo stanno chiedendo, ce lo siamo chiesti anche noi. Ne siamo usciti psicologicamente provati un po’ tutti. 

PF: Immagino. 

MW: È passato poco. Abbiamo iniziato a girare a ottobre [2022, ndr], abbiamo finito a fine marzo, il 29 marzo [2023, ndr] c’è stata alla prima, e non avevamo ancora finito di montare gli ultimi due episodi, per cui è stata veramente una cosa molto veloce. E da che siamo tornati, nessuno di noi ha avuto il modo, il tempo, lo spazio per metabolizzare realmente. Per esempio, io ho avuto un’altra sindrome dell’impostore che sto cercando ancora di risolvere. Come le magliette nel 2019, io mi dico (e infatti si vede a un certo punto che in una puntata ha detto): “io mi vergogno di fare questa roba qua perché sono il manifesto dello stronzo occidentale, bianco, biondo, che ha fatto le scuole a Milano, sti cazzi”. Vado lì, faccio questi filmati, sono obbligato a star poco, quindi devo andare anche molto veloce perché il budget ci consentiva sette giorni al massimo per paese. È come se tu sfruttassi delle situazioni per tornare qua, poi ricevere l’applauso e andare in giro a fare le conferenze fighe ed essere servito e riverito come il volto di Junk. A questa cosa non mi fa tornare sereno a casa la sera. Poi mi ricordo invece quanto sta facendo per gli studenti, per l’educazione, la formazione, la consapevolezza e mi tiro su. E allora dico, bisogna fare di più in quell’ambito lì. 

PF: Secondo me più che la sindrome dell’impostore, è la sindrome del designer, che non è mai contento del progetto che ha appena finito e sta già pensando di fare quello successivo. 

MW: Ah, non sapevo esistesse la sindrome del designer. 

PF: Non lo so se esiste, però facciamo che esista. Diamo un nome a questa cosa. 

MW: Voglio un nuovo libro di Paolo Ferrarini, “Sindrome del designer“. 

PF: Ma guarda, possiamo scriverlo, possiamo farci anche un podcast, “La sindrome del designer“. Dai facciamo uno spin off di Parola Progetto! È l’eterna insoddisfazione del progettista, chiamiamola così. Il desiderio [che ti fa dire] “Ok, ho raggiunto un obiettivo perfetto. Però non mi basta”. Il motivo per cui i miei amici, i nostri amici designer di prodotto continueranno a progettare delle sedie. Non esiste la sedia definitiva, non esisterà mai, non esiste il tavolo definitivo, le maniglie delle porte hanno bisogno di essere riprogettate costantemente. C’è sempre qualcosa da rifare, c’è sempre qualcosa da aggiungere ed è sano. Posso dire che tu abbia questa sindrome del fare meglio. Lo dimostra anche tutta la storia di Wråd, che è partito come una t-shirt grigia ed è diventata una serie televisiva. 

MW: E noi stanno randagi, perché siamo sempre i soliti randagi. 

PF: Certo, certo. Io ti auguro di non trovare mai soddisfazione totale.

MW: Grazie, è come venire in terapia stamattina? Fantastico, questo podcast ha un’altra anima. 

PF: Vero? 

MW: Qual è la sedia perfetta per te? 

PF: Per me è la Superleggera. 

MW: Guarda, lo sapevo! Da quanto dicevi lo stavo pensando.

PF: Se tu dovessi dare un consiglio (e uno solo) a un’azienda per ridurre il proprio impatto, qual è il singolo passo più importante che un’azienda può compiere? Non dico per realizzare la sostenibilità, ma per lo meno per andare nella giusta direzione. 

MW: Distribuire ricchezza nella filiera, pagare le persone uno stipendio dignitoso. Se tu non metti le aziende che producono per te nelle condizioni economiche, psicologiche per attuare la transizione ecologica, il tuo impatto ambientale non lo ridurrai mai. I brand hanno i loro bellissimi uffici (qua a Milano, Roma, Firenze, quel cavolo che è) con i pannelli solari, ma quello non è neanche il 10% dell’impatto del brand. La maggior parte dell’impatto sta nella filiera e la filiera è schiacciata. Se non li paghi il giusto, loro non hanno [possibilità di non] – anche se vogliono, e ti assicuro che non vogliono – inquinare loro paese. Sono obbligati a farlo perché non ci sono altre possibilità. 

PF: E invece gli utenti, i clienti, le persone che acquistano, noi che cosa possiamo fare per fare un primo passo importante verso la sostenibilità? 

MW: Sembra una banalità, ma allungare la vita dei vestiti che abbiamo nell’armadio è il primo e più importante passo, perché allora vai direttamente a rompere un po’ l’ingranaggio del sovraconsumo. 

PF: Quindi dici: una cosa la fai durare il doppio, tendenzialmente compri la metà. 

MW: Dovremmo arrivare lì. Difficilissimo!

PF: Lo so, lo so. 

MW: Sai perché? Per capire come contrastare questa cosa qua bisogna capire come funziona il cervello, ed è un altro ragionamento che i brand non fanno, o meglio, non vogliono fare, non è conveniente. 

PF: I brand lavorano sul cervello delle persone per spingerle a comprare di più, non a comprare di meno. 

MW: Il brand è biologicamente ingegnerizzato per volere sempre qualcosa di nuovo e sempre qualcosa di più, per cui è molto difficile. E questo è design, è progetto per il team di comunicazione. Se uno pensa alla sostenibilità, pensa al direttore creativo. Ma sì, certo. Ma attenzione: il prodotto oggi ha una forte componente di comunicazione che determina e può amplificare o addirittura distruggere e vanificare qualsiasi effort di design e progettazione responsabile fatta dal team prodotto. Perché [non funziona] se io disegno il jeans più responsabile del mondo, e ce la faccio, ma poi la comunicazione mi esce con qualcosa che mi spinge a consumarlo, a bruciarlo dopo pochi utilizzi. Spesso accade così anche questo. Anche perché le due cose sono scisse [ma] dovrebbero essere assieme, comunicazione e prodotto devono lavorare in tandem. Oggi invece spesso lavorano anche in città o paesi diversi per lo stesso brand, non si parlano. 

PF: In pillole, facci qualche esempio di aziende realmente sostenibili. 

MW: No. 

PF: Non esiste? 

MW: No, no, no, perché è un’arma a doppio taglio. Posso dirti chi sta facendo un lavoro interessante in questa direzione, ma l’azienda sostenibile (come la moda sostenibile) non esiste. È un’utopia necessaria. Enzo Mari diceva [che] l’utopia è il corrimano etico che ci serve per guidarci. Benissimo. Allora, idealizziamola, teniamola lì e siamo consapevoli che non esiste. E dobbiamo però idealizzarla, visualizzarla per fare i passi verso quella direzione. Chi sta lavorando molto bene è Progetto Quid, in Italia. Un’azienda, un brand creato da Anna Fiscale nel 2013 o 2014, se non sbaglio. Lei parte dal dire: “cosa può fare un abito che non ha fatto fino a ieri?”. Non voleva vendere moda, voleva dare lavoro a persone che non potevano per diversi motivi avere alcuna chance di reintegrarsi nel mondo del lavoro in Italia. E quindi attiva una filiera tessile e insegna a queste persone a lavorare in modo tale che abbiano un lavoro. Sono partiti da tre, oggi sono più di 150 persone a Verona. È una meraviglia! Rifò Lab, Niccolò Cipriani in Toscana, a Prato fa [tesoro] della tradizione cenciaiola, la rinnova e crea un brand a tutti gli effetti. Si basa su un’idea di progetto che non è circolare, non è sostenibile: è la cosa giusta da fare, che loro hanno sempre fatto da tanti anni, perché sapevano che quella materia prima è preziosa. Se non la riutilizzavi la lana, se non la recuperavi per il progetto, la potevi usare come fertilizzante per gli uliveti. 

PF: Le grandi, grandi, grandi aziende? 

MW: Lì siamo messi malino. No, non è vero. Siamo messi in transito. C’è chi è un po’ più avanti, chi un po’ più indietro. Malino, lo dico in relazione al fatto che tante cose potrebbero essere fatte oggettivamente domani ma ci sono delle sovrastrutture decisionali, di governance, finanziarie, legislative, che impediscono purtroppo, a malincuore, una canalizzazione di questo processo necessario. Nei grossi gruppi (Kering e LVMH) all’interno delle maison di entrambi, alcune stanno facendo un lavoro veramente esemplare, con enorme difficoltà ma stanno facendo un grosso lavoro. Per me fast fashion come business model non è solo questione di prezzo basso, perché esiste la fast fashion anche nel lusso. Il vero e unico grosso elefante nell’armadio qua è dire chi è che si è inventato il business model che ti consente di capitalizzare sulla durabilità del prodotto e non sul consumo breve termine. È lì che ti giochi la possibilità di rivoluzionare il sistema. Purtroppo, a malincuore dico [che] tante aziende stanno sbagliando il primo passo perché si concentrano sul materiale, sulla tecnologia. [Prendiamo ad esempio] il cotone organico. Una maglietta in cotone organico, fatta in Italia dai migliori artigiani del mondo, cosa impedisce a questa maglietta di finire in Ghana? Nulla. Vuol dire che il business model alimenta quella roba lì. L’insostenibilità della moda è un problema politico e tutti stanno cercando di risolverlo con la tecnologia o con il processo. Non funziona. 

PF: Quindi anche le grandi aziende di elettronica, di oggetti di consumer electronics che ti dicono: “saremo completamente sostenibili a partire dal 2032”? Cosa pensi quando senti questi proclami? 

MW: Oggi sbuffo, ieri mi incazzavo, l’altro ieri cercavo di capire se c’era della verità dietro. Oggi dico: “Ma ragazzi, ma che cosa state dicendo? Cosa stiamo dicendo?” Il paradosso è che si usano questi claim per spingerci a commettere quelle azioni che sono in diretta antitesi con l’idea di sviluppo sostenibile. Perché sviluppo sostenibile significa produrre meno e aumentare la durabilità intrinseca del prodotto e del progetto. E mi rendo conto che è difficilissimo perché l’industria della moda – come quella elettronica – si basano esattamente sull’opposto. A fine del 1600 quando ci siamo inventati la primavera/estate e l’autunno/inverno, abbiamo creato l’obsolescenza programmata psicologica del prodotto. Poi è diventata obsolescenza programmata intrinseca del prodotto, tecnica. Poi ci siamo inventati il modo per abbassare i costi ambientali, cioè esternalizzare completamente i costi ambientali sociali. Un disegno politico, non è che ce lo siamo inventati con una macchina: abbiamo scelto per legge che certe persone potevano essere ridotte in schiavitù. Nulla è cambiato da allora e poi arriva il nipote di Freud, [Edward] Bernays, che scrive un bellissimo libro “Propaganda, manipolazione della coscienza collettiva“ (siamo a metà degli anni ’50) e insegna alle aziende di moda come manipolare il cervello per alimentare il sovraconsumo. Da qua bisogna partire. Ai brand che vogliono fare quel percorso lì e ci dicono “ridurremo le emissioni relative entro il 2030“, [dico] “dimostrami come stai ragionando su ridurre ed eliminare le premesse che ti hanno reso insostenibile in primo luogo”. Poi non dico che sia sbagliato, anzi, investire in tecnologie per abbassare l’impatto ambientale del prodotto. È fondamentale, però non è l’unica soluzione, deve andare di pari passo con tutte quelle altre strategie che abbiamo appena detto. 

PF: Quali sono le tue fonti di informazione? Dove possiamo cercare delle informazioni attendibili se volessimo approfondire questi temi? 

MW: C’è una rivista inglese, orrenda a livello di grafica, di impostazioni, una roba uscita, inguardabile. Si chiama Apparel Insider. Ma perché non gliene frega proprio, si vede proprio che non c’è alcuna consapevolezza che faccia schifo, loro hanno però un’informazione molto molto molto onesta, oggettiva su quello che succede nel mondo. E consiglio l’iscrizione al newsletter, che ogni venerdì arrivano 12 articoli che fanno capire cosa sta succedendo nel mondo della sostenibilità e della moda. 

PF: Ok, metteremo il link nelle note del podcast. 

MW: Non spaventatevi per l’impostazione grafica. 

PF: E qualcosa invece che non sia solo legato alla moda? 

MW: Sono un po’ di parte, ma oggettivo. Will Media in Italia fa un ottimo lavoro, sono per me i numeri uno, un bellissimo team e lo fanno con tanta voglia e consapevolezza. 

PF: Parte proprio da qualcosa di molto autentico, molto genuino e molto viscerale, per cui mi sento anch’io di consigliare, loro lavorano molto bene. Matteo, è arrivato il momento della raffica. 

MW: Oh mamma! 

PF: Oh mamma, lo dicono tanti ospiti. Ti ricordo le regole: sono dieci domande a sorpresa, solo risposte secche, hai una possibilità di passare e una possibilità di argomentare. 

MW: Ma chi le ha viste queste domande? 

PF: Nessuno. Non le ha viste nessuno, le ho viste solo io. 

MW: Vai. Ho una possibilità di passare e una possibilità di argomentare? 

PF: Esattamente, esattamente. Sono 10.

MW: Cavolo!

PF: Sostenibilità o responsabilità? 

MW: Responsabilità, oggi sostenibilità domani. È argomentata?

PF: Ti sei giocato l’argomentazione!

MW: Mi sono già giocato la prima? No! Dai, ragazzi.

PF: Ti sei già giocato l’argomentazione. Poi per carità qua dentro le regole le facciamo noi, ok? Per cui cerchiamo di rispettarle. Ma se non le rispettiamo, chi se ne frega?

MW:  Sei un bastardo, hai già capito che dove vuoi andare a parare tu. 

PF: Orologio digitale o a lancette? 

MW: A lancette.

PF: Vacanze al mare o in montagna?

MW: Montagna.

PF: Serie TV o cinema?

MW: Serie TV, perché mi addormento al cinema.

PF: È una mezza argomentazione. T-shirt o camicia?

MW: T-shirt.

PF: Borsa o zaino? 

MW: Zaino. 

PF: Vino o cocktail? 

MW: Dipende da quanto grave è la situazione. 

PF: Qui è il veneto che c’è in te!

MW: Il vino e l’acqua, però se sono stressato gin tonic. 

PF: Barretta proteica o frutta secca? 

MW: Frutta secca. Ho paura delle barrette. 

PF: Gita in barca o gita in montagna? 

MW: Gita in montagna. Soffro mal di mare, non mangio pesce, mi scotto sotto il sole. Sono un disastro al mare. Mio marito grande velista, tutta la famiglia disastro. 

PF: Tu no, invece. 

MW: Mi odiano. 

PF: Che bello. L’ultima della raffica. Ricordati che puoi passare ancora. 

MW: Non ne ho passata neanche una? 

PF: No, non ne hai passata neanche una. Ne hai argomentate tre ma non ne hai passata neanche una. Puoi passare. Attenzione, l’ultima. Milano o Vicenza? 

MW: Passo! 

PF: Dai, te la sei cavata con la raffica. Dai, tutto bene. Abbiamo infratto un po’ di regole, ma hai fatto un challenge dello status quo anche in questo caso. 

MW: Dai, sono contento. 

PF: Lo status quo di Parola Progetto. Allora, la domanda finale del podcast con cui saluto sempre gli ospiti. Qual è un libro per te importante che dovremmo leggere anche noi? 

MW: “Design per il mondo reale” di Victor Papanek. 

PF: Raccontacelo. Non lo conosco. 

MW: Non lo conosci? 

PF: No. 

MW: Ha scritto questo libro all’inizio degli anni ’70. Il libro racconta e spiega quello che lui raccontava in classe. Lui nasce in Austria, insegna design negli Stati Uniti e in quegli anni è il primo che mette per iscritto un po’ in modo comprensibile, facile, fruibile, quelle che dovrebbero essere le regole base della progettazione per ogni designer. Parte proprio della creazione di questo esagono, la chiama la funzione del design. Dice, in risposta a uno studente che gli disse “ma professore, è più importante l’etica o l’estetica?“ Classica domanda. Una domanda, non voglio dire stupida, perché non c’è una domanda stupida, ma in realtà un progetto per essere un progetto di design deve bilanciare la metodologia, la funzione, l’associazione positiva col pubblico, la necessità per la creazione di questo prodotto, la forma, quindi l’estetica. Se viene a mancare in questa funzione uno o più di questi elementi, allora vuol dire che c’è un errore progettuale, magari insormontabile in quel momento storico lì, allora bisogna andare avanti. E ha scritto e parlato anche del design per le minoranze e del design per la diversità. Ha fatto tantissimi progetti in Africa. Illuminato e illuminante. È chiaro che tanti esempi che fa sono attinenti agli anni ’70, però è un libro illuminante che credo ogni studente di design deve leggere. 

PF: Bene, grazie Matteo. 

MW: Grazie a te. Ciao Paolo. 

PF: Ciao, alla prossima. 

MW: Alla prossima.

 

 

 

 

Puntata registrata in studio a Milano il 24 novembre 2023 e pubblicata il 15 gennaio 2024.

La trascrizione è stata effettuata utilizzando strumenti di intelligenza artificiale e successivamente editata dall’autore.

 

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